Collegno, Torino: duemila anni di storia

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Autore Alessandro 11 Settembre 2022
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Ogni metro quadrato del nostro paese ha assistito a millenni di storia viva ed intensa. Eppure la maggior parte delle città e dei paesi – se escludiamo le città d’arte e le classiche mete - paiono privi di qualsiasi tipo di attrattiva turistico-culturale.

Certamente non è esente da colpe la mancata promozione e valorizzazione del patrimonio da parte delle istituzioni locali, ma e contribuire fortemente a questa situazione vi è in fondo la scarsa conoscenza del passato storico di tali luoghi.

Alla luce di ciò, ho deciso di redigere una serie di guide alla scoperta di paesi e città che nascondono importanti gioielli storici, artistici, architettonici, culturali o naturali, ma che sono generalmente ignorati per la loro posizione al di fuori dalle rotte turistiche tradizionali.

Collegno: duemila anni di storia di un’antica stazione postale

Subito ad Ovest di Torino incontriamo un paese di circa 50.000 anime, che parrebbe ad un primo sguardo di scarso interesse per il viaggiatore.

Se mettiamo da parte una certa incuria che sembra avvolgere il luogo (piante non curate ai lati di molte strade e tanti edifici abbandonati e in rovina) avremo la possibilità di scoprire diverse perle sconosciute ai più.

Stiamo parlando della città di Collegno, territorio di pianura alle porte del capoluogo piemontese, solcato dal fiume Dora Riparia nel tratto terminale del suo percorso.

La fascia di terra compresa tra le due sponde è oggi parte del Parco Agro-naturale della Dora: area protetta in parte relitto boschivo, in parte terreno agricolo suddiviso in lotti delimitati dalle bealere: canali di irrigazione medievali che prelevano l’acqua dalla Dora.

L’area verde che costeggia il serpeggiare del fiume, vero e proprio corridoio ecologico che interseca le rotte di molti uccelli migratori divenendone un importante punto di sosta, è divenuto oggi, con l’istituzione del percorso ciclo-pedonale del parco della dora, meta di appassionati di MTB e amanti della natura.

Ma il Parco Naturale della Dora con la sua ciclo-pedonale nella natura è solo uno dei tanti luoghi affascinanti di questo paese dall’apparenza così anonima.

Collegno, Provincia di Torino
Collegno, Provincia di Torino

La mappa: Collegno (TO)

Nella mappa qui sotto abbiamo indicato i punti di interesse storici in marrone, quelli naturali in verde e la pista ciclo-pedonale in fucsia.

Abbiamo segnalato inoltre i parcheggi dove ad oggi (Settembre 2022) è tollerata la sosta in camper o van. Infine abbiamo contrassegnato i punti in cui è possibile approvvigionarsi di acqua.

Tutte queste informazioni, così come il fatto che il parcheggio venga tollerato, potrebbero in futuro variare.

Un po’ di storia

Epoca romana Ad Quintum

Ad Quintum Collegium: l’antica mansio sulla via delle Gallie

Collegno nasce duemila anni fa come mansio (stazione di posta), lungo l’antica via delle Gallie, che passando per il Moncenisio univa la Francia alla Pianura Padana.

Nel 28 a.C. nasce la colonia romana Julia Augusta Taurinorum: l’attuale Torino. I viaggiatori che da qui si recano in Gallia hanno bisogno di strade sicure e luoghi di riposo.

La zona di Torino diviene importante dal punto di vista militare quando Cesare intraprende le campagne di Gallia.

All’epoca dell’imperatore Tito (80 d.C. circa), nei pressi dell’attuale Chiesa di San Massimo, sorge il primo vero nucleo di Collegno con il nome di Ad Quintum Collegium, per la sua posizione a cinque miglia da Torino. Conta un presidio militare, un albergo, stalle e depositi di vetture e foraggi.

Vi si stabiliscono negozianti, artigiani, contadini e un collegio sacerdotale costituito dai Romani per diffondere il sentimento imperiale e custodire le tombe.

La mansio comincia così ad essere chiamata Collegium ad Quinto. Più tardi Ad Quinto scompare lasciando posto a Collegium e successivamente Collegno.

Nelle vicinanze sorgono altre mansiones tra cui Settimo (Ad Septimum) e None (Ad Nonum).

Collegno in epoca longobarda

Nel 568 d.C i Longobardi di Re Alboino invadono con oltre 100.000 guerrieri il nord della penisola italica.

Ne seguono apre lotte al termine delle quali si insediano in molte città e paesi dell’Italia del nord, tra cui Torino e la vicina Collegno, dove sono state trovate una piccola necropoli gota e una, molto più estesa, longobarda.

Collegno nell’alto medioevo: il castello e il centro storico

Nell’anno 1000 Collegno si trova sotto il dominio dei Savoia. Nel 1171 Umberto III fa costruire, su un’altura scavata da un’ansa della Dora, un castello.

Il fortilizio è costituito da cinque torri di difesa, un lato inaccessibile per la presenza della Dora e l’unico accesso attraverso un fossato con ponte levatoio.

Attorno al Castello si sviluppa il nuovo abitato: l’attuale centro storico. Il vecchio insediamento attorno a San Massimo viene abbandonato.

Nel 1228 Collegno passa ai Marchesi di Monferrato per tornare ai Savoia dopo 10 anni, con l’investitura di Tommaso Il Conte di Savoia a primo Signore del Piemonte da parte dell’imperatore Federico II.

Nel 1252 il Castello viene in gran parte distrutto dalle le lotte fra torinesi - retti dal Vescovo - e Tommaso III di Savoia.

Nel 1259 il Vescovo di Torino Gandoifo riesce a sottrae il Castello ad Americo di Crusinaldo.

Nel 1275 Collegno torna sotto Guglielmo VII, Marchese del Monferrato, che ricostruisce il Castello. Nel 1290 Guglielmo VII viene arrestato da Amedeo V, Conte di Savoia, che riprende Collegno e lo concede in feudo a Filippo, Principe d’Acaja.

Dal 1301 al 1367 fra i cugini Savoia e Acaja vi sono lotte continue, Collegno viene più volte saccheggiata e il Castello espugnato.

Nel 1320 passa a Lanteimo, figlio di Filippo d’Acaja e rimane ai d’Acaja fino al 1598, anno in cui muore di peste l’ultimo discendente di Filippo, Emanuele Filiberto.

Nel 1348 e 1349 in Europa imperversa la peste nera. Dal 1500 al 1650 le terre del Ducato di Savoia sono tormentate dalle guerre. Nel 1510, nel 1575 e tra il 1599 e il 1600 torna la peste nera.

Il 29 marzo 1599 Carlo Emanuele I, Duca di Savoia, concede in feudo il Castello di Collegno a Giovanni Francesco Provana di Carignano, Signore di Bossolino e della Gorra, che combattendo al suo fianco contro i francesi, perse ogni bene.

Collegno nel 1600

Divenuto feudatario e gran cancelliere dei Savoia, Giovanni Francesco Provana assume il titolo di primo Conte di Collegno. Tra il 1600 e il 1644, insieme al figlio Ottavio, secondo Conte di Collegno, fa riedificare il Castello, quasi in rovina.

Nel 1626, mentre Collegno conta quasi 700 abitanti e Torino 25.000, torna la peste che uccide 3.000 torinesi e buona parte dei Collegnesi.

Nel 1641 l’ordine dei Padri Certosini viene chiamato a trasferirsi a Collegno dalla reggente Maria Cristina. Nel 1648 ha inizio la costruzione della Certosa di Collegno, che verrà terminata nei primi del 1700.

Collegno nel 1700: la dominazione Francese

Il 1700 le truppe piemontesi respingono l’invasore d’oltralpe, ma meno di un secolo più tardi, nel 1798, il Piemonte cade sotto Napoleone Bonaparte.

Davanti al Castello di Collegno viene eretto l’albero della Libertà. Si insediano i metodi di amministrazione e di governo dei francesi e i principi universali della Rivoluzione dell’89.

Collegno nel 1800: la Restaurazione

La dominazione francese termina nel 1815 con il Congresso di Vienna che restituisce le terre dei Savoia a Vittorio Emanuele.

Nel 1840 la chiesa della certosa viene dichiarata ufficialmente Cappella dell’ordine della Santissima Annunziata da Carlo Alberto, ma solo 12 anni più tardi l’intera area su cui sorge viene destinata al nuovo ospedale psichiatrico.

Nel 1854 infatti il Regio manicomio di Torino è trasferito proprio alla Certosa di Collegno, che vista la sua posizione in piena campagna permette di impiegare i ricoverati in una colonia agricola.

Diversi ampliamenti successivi della costruzione e l’aggiunta di fabbricati ottocenteschi disposti a pettine - detti padiglioni - trasformano il manicomio di Collegno in una delle più grandi strutture d’internamento d’Italia.

L’epoca dell’industria

Nel 1838 Collegno conta 1776 abitanti di cui 700 occupati divisi tra quattro filatoi di seta, due filature, una concia pelli e una ferriera per la produzione di utensili agricoli.

Nel 1850 nasce e si sviluppa la prima produzione di minuterie di ottone per ombrelli. Nel 1853 a nasce il Borgo Nuovo.

Nel 1854 imperversa il colera. Il Comune attrezza un ospedale di emergenza, ma in pochi giorni l’epidemia miete 70 vittime.

Tra il 1871 e il 1955 Collegno è servita da due linee ferroviarie a scartamento ridotto: la Torino-Rivoli (1871-1955) e la Torino-Pianezza (1884-1951).

Nel 1880 le botteghe ottonaie sono già 6 e Collegno ha un asilo infantile a conduzione religiosa e una scuola elementare. Dal 1874 al 1882 soggiorna a Collegno Laios Kossuth, uomo di stato ungherese, amico di Mazzini, Cavour e Garibaldi. L’Italia è ormai unita sotto i Savoia.

Il Novecento

A fine secolo Collegno conta 4491 abitanti, è divenuto un centro industriale ma conserva molte zone agricole.

Tra le industrie, il Cotonificio Leumann, detto il Fabbricone, occupa ben 900 lavoratori.

Attorno al Fabbricone viene realizzato, per volere del suo proprietario, un villaggio operaio unico nel suo genere. È il Villaggio Leuman.

Le guerre mondiali

Tra il 1915 e il 1918 settanta Collegnesi cadono sui fronti della Grande Guerra.

L’8 settembre del 1943 alcuni giovani antifascisti di Collegno si arruolano nelle bande partigiane delle valli di Susa, di Lanzo e del Monferrato.

Tra il 30 aprile ed il 1º maggio 1945 durante un’incursione attaccano e uccidono alcuni soldati tedeschi in ritirata.

I tedeschi per rappresaglia giustiziano 32 persone. Tra le vittime vi sono Don Sapino, parroco di Savonera, e don Caustico, sacerdote grugliaschese.

Alla rappresaglia nazista segue una nuova vendetta da parte dei partigiani, che prelevano dai luoghi di detenzione e fucilano 29 militi della R.S.I.

Quando il 2 giugno del ‘46 viene proclamata la Repubblica, Collegno come la maggior parte dei comuni italiani, ha un tenore di vita notevolmente inferiore a quello di altri paesi dell’Europa dell’ovest (come Francia, Svizzera, Inghilterra e Germania).

I servizi sono insufficienti, così come l’illuminazione pubblica. Le linee di trasporto si limitano al servizio di qualche corriera privata e al trenino Torino–Rivoli. Diverse industrie della città sono danneggiate dai bombardamenti.

Servono scuole, case e infrastrutture. I costi che la pubblica amministrazione deve sostenere sono altissimi. L’industrializzazione e l’avvio verso il deficit finanziario cambiano radicalmente l’aspetto di Collegno.

Il boom economico

Tra gli anni ‘50 e ‘60 l’espansione urbanistica accelera, soprattutto lungo l’asse di Corso Francia il cui edificato arriva a fondersi con quello Torinese. Di riflesso da Torino l’industria si espande investendo Collegno.

Il boom del capitalismo attira masse di emigranti prima dai campi e dalle montagne del Piemonte e successivamente dal Veneto e dal Mezzogiorno. I nuovi lavoratori trovano impiego nelle nuove manifatture industriali, prevalentemente tessili e siderurgiche.

Il 31 Gennaio del 1980, a Collegno è concesso il titolo di Città.

Cosa vedere a Collegno

La Certosa di Collegno

La costruzione della Certosa Reale di Collegno fu commissionata nel 1641 da Cristina di Francia, reggente di Savoia, sul modello architettonico della Grande Chartreuse di Grenoble (Francia).

La Certosa di Collegno
La Certosa di Collegno

Dal 1595 i monaci della Certosa di Banda, località sopra Villar Focchiardo, si erano trasferiti ad Avigliana. Nel 1629, però, il duca Carlo Emanuele I, per ampliare le fortificazioni della città, era stato costretto a sfrattarli, promettendo di trovar loro una nuova sede. Ma la guerra, la peste e la pace di Cherasco impedirono al duca, nel frattempo deceduto, di mantenere i patti.

I certosini fecero allora ritorno a Banda.

Il nuovo duca, Vittorio Amedeo I, voleva tener fede alle promesse del padre ma morì nel 1637 senza riuscire a dare una nuova sede ai Certosini.

La vedova, Maria Cristina di Francia, duchessa di Savoia e sorella del re di Francia, recatasi in Francia per fare visita al fratello Luigi XIII, fu ospitata a Grenoble nella Grande Chartreuse, casa madre dell’ordine certosino, dove fece voto che, se avesse ottenuto la pace, avrebbe edificato una certosa.

Nell’anno 1641 per tener fede alla promessa acquistò quindi numerosi prati e boschi sul luogo in cui sorge l’attuale Certosa. I Certosini da Avigliana furono finalmente chiamati ad occupare la nuova Certosa, dedicata all’Annunziata, patrona di Casa Savoia.

La Certosa di Collegno
La Certosa di Collegno

La Certosa diviene così la nuova sede dei monaci certosini e lo rimarrà per oltre 200 anni. In questo arco temporale il complesso monastico si arricchisce man mano di opere architettoniche e artistiche.

Tra i nomi più illustri che collaborano alla realizzazione compaiono Maurizio Valperga, primo Ingegnere del monarca, chiamato a progettare il complesso, e Filippo Juvarra, progettista dell’ampliamento settecentesco noto per la realizzazione del portale d’ingresso.

Il portale di ingresso della Certosa di Collegno
Il portale di ingresso della Certosa di Collegno

Fanno parte di questo primo complesso storico la Chiesa Santissima Annunziata, le Tombe dei Cavalieri della Santissima Annunziata e l’Aula Hospitalis.

Con l’annessione all’impero Napoleonico del 1802 anche i Certosini di Collegno subiscono la sorte di tutte le istituzioni religiose, che, private delle loro sostanze, sono obbligate a sciogliersi.

Gli edifici della Certosa divengono proprietà demaniali e successivamente privati.

Al ritorno dei Savoia viene riaperta la Certosa di Collegno e i monaci rientrano in possesso degli edifici. Ma il patrimonio della Certosa nel 1816 è ormai lontano dell’antico splendore.

Il Manicomio di Collegno

Nell’800 attraverso diversi aggiornamenti vengono aggiunti padiglioni che conferirono alla Certosa l’aspetto attuale.

Il manicomio di Collegno
Il manicomio di Collegno

Già dopo alcuni anni dalla sua costruzione, il Regio Manicomio di Torino risulta sovraffollato.

Si inizia a pensare a una nuova sistemazione per gli internati.

Si cerca una collocazione alle porte di Torino, possibilmente nei paraggi di una cascina dove i malati più tranquilli possano dedicarsi ai lavori agricoli.

Viene acquistata Villa Cristina, a Savonera, di proprietà della vedova di Carlo Felice, ma l’amministrazione del manicomio stabilisce che l’aria di Savonera è insalubre. Vengono scartate sistemazioni a Rivalta, Montaldo e Rivara e nel castello di Rivoli.

L’attenzione cade allora sui terreni della Certosa di Collegno. Nel 1852 si è vicini ad una proposta per l’acquisto del monastero dei Certosini.

I monaci, forse per scampare alla soppressione delle corporazioni religiose, offrono i locali del monastero per la sistemazione provvisoria di ottanta internati, inizialmente solo uomini, considerato il regime di clausura che vi vigeva. L’amministrazione dell’ospedale psichiatrico accetta l’offerta.

Il manicomio di Collegno
Il manicomio di Collegno

Il 29 luglio del 1853 il ministro Urbano Rattazzi informa la direzione di aver deciso di destinare la Certosa di Collegno a nuovo manicomio.

Il 10 Agosto vengono trasferite da Torino anche le ricoverate donne.

La convivenza tra i Certosini e i malati del manicomio si rivela difficile fin dal subito: i Certosini negano ai ricoverati anche la possibilità di passeggiare nel chiostro e di lavorare nei campi.

L’epidemia di colera del 1854 miete numerose vittime, sia nell’ospedale di Torino sia nella succursale di Collegno.

Superata l’epidemia il governo nomina una commissione che si pronuncia favorevolmente in merito al trasferimento totale dell’ospedale psichiatrico nei locali di Collegno.

Il 1855 fu l’anno in cui vennero soppresse le corporazioni religiose. Tutti i beni passarono alla Cassa Ecclesiastica che pretendeva da parte del Regio manicomio il pagamento di un cospicuo canone d’affitto.

Il parco del manicomio di Collegno
Il parco del manicomio di Collegno

Piuttosto che dover sborsare la retta la direzione dell’ospedale accelerò le trattative per l’acquisto del monastero. Nel 1856 fu stipulato l’atto di vendita: la Certosa di Collegno e tutti i suoi terreni passarono in piena proprietà al Regio Manicomio.

Il manicomio di Collegno dispone di una biblioteca di due secoli – riscoperta solo di recente - che vanta una raccolta di 14 mila volumi. Dai documenti risulta che nel 1878 i ricoverati ne collaboravano alla gestione.

Nel 1927 saltarono agli onori della cronaca le vicende dello Smemorato di Collegno.

Intanto il numero dei ricoverati continuava ad aumentare vertiginosamente, tanto da aprire il ricovero provinciale di strada Pianezza e di una succursale a Grugliasco.

Nel 1930 all’interno del manicomio di Collegno nasce il reparto delle Ville Regina Margherita, destinato ai pensionati.

Negli anni 40 l’ospedale psichiatrico raggiunge il massimo della sua estensione: venti padiglioni collegati da una piccola linea ferroviaria interna che scorreva sotto i porticati: la “Decauville”.

Il manicomio di Collegno
Il manicomio di Collegno

Il 1978 è l’anno delle leggi 180 e 833, che segnano l’inizio del superamento degli ospedali psichiatrici. Con l’applicazione della legge Basaglia i reparti si trasformano in comunità e i ricoverati diventarono ospiti. Infine, con il decreto Garavaglia del 1997 viene sancita la totale abolizione dei reparti.

Chiuso l’ospedale psichiatrico il complesso viene in parte abbandonato, in parte adibito a sede di uffici. Il parco, riconvertito in parco urbano con strutture sportive ed eventi musicali e teatrali ed è oggi accessibile a tutti.

I confini dell’ambito ospedaliero coincidevano con il muro di cinta, in parte abbattuto negli anni ottanta.

La struttura divenne famosa per lo smemorato di Collegno e l’elettricista, vicende che sono raccontate alla fine di questo articolo.

Sala delle Arti

Nel verde del parco dell’ex ospedale psichiatrico vi è la “Chiesa delle Ville”, costruita per i degenti e il personale della struttura. Dal 1996, con la chiusura definitiva delle attività ospedaliera, la chiesa è diventata la Sala delle Arti di Collegno: luogo culturale per attività espositive e mostre di arte figurativa.

La Sala delle Arti del parco del ex ospedale prichiatrico ha ospitato nomi illustri come Marc Chagall, Francisco Goja, Aligi Sassu, Umberto Mastroianni, Marino Marini, Francesco Casorati, e Ugo Nespolo.

Sala delle arti a Collegno
Sala delle arti a Collegno

Tutte le mostre della Sala sono aperte al pubblico e gratuite.

Lavanderia a Vapore

L’edificio forse più noto all’interno del parco è la Lavanderia a Vapore, costruita tra il 1870 al 1875 su progetto dell’ing. Fenoglio per essere adibita al lavaggio panni del Regio Manicomio.

La lavanderia a vapore a Collegno
La lavanderia a vapore a Collegno

Nel cortile della struttura è stata allestita un’arena per gli spettacoli all’aperto che è divenuta uno dei palchi più importanti d’Italia, prima con il festival Colonia Sonora e poi dal 2015 con il Flower Festival.

Alcuni dei più noti artisti che si sono succeduti sul palco del cortile della Lavanderia sono Deep Purple, Motorhead, Lenny Kravitz, Placebo, The Cult, Alice in Chains, Patti Smith.

Lavanderia a vapore a Collegno
Lavanderia a vapore a Collegno

Sul sito ufficiale della Lavanderia a Vapore si può trovare il calendario dei suoi eventi, da non perdere se deciderete di visitare Collegno.

Dal centro storico al vecchio mulino attraverso i Balcunet

Davanti alla cappella della Madonnina di Collegno troviamo una scalinata che porta dal centro storico di Collegno al vecchio mulino attraverso una passerella pedonale.

Passerella pedonale a Collegno
Passerella pedonale a Collegno

Oltrepassando la Dora attraverso questa scorciatoia, detta “I Balcunet” dal sito di partenza detto porta dei balconi o Balcunet, giungiamo al vecchio mulino e alla filatura Rolla che nei primi del 900 occupava molte donne e bambine di Collegno.

Il balcunet che porta alla cappella della Madonnina
Il balcunet che porta alla cappella della Madonnina

Il mulino conserva la sua pianta rettangolare e si è mantenuto nel suo stato originale fino ed oltre gli anni 2000, quando pesanti ristrutturazioni ne hanno stravolto l’aspetto originale trasformandolo in abitazioni residenziali e sedi di attività e associazioni.

Nei pressi della scalinata, all’incrocio di via Amedeo d’Aosta (la via maestra di Collegno) e Via Gioito, vi è la casa del Ghetto, di impianto tardo medievale, nella quale si presume si riunisse la Credenza: l’antico consiglio comunale.

Dimore storiche

Il castello di Collegno

Il Castello di Collegno, realizzato nel 1171 per volontà del Beato Umberto III di Savoia (lo stesso che nel 1188 fece costruire anche l’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso) è un vero e proprio gioiello di architettura.

Un’antica dimora di nobili famiglie che hanno scritto le pagine della storia piemontese: i Savoia, i marchesi del Monferrato, gli Acaja e i Provana.

Il castello di Collegno
Il castello di Collegno

L’antico Castello, di cui resta oggi solo una torre a pianta quadrata, fu in gran parte distrutto nel Duecento dai torinesi in lotta contro Tommaso di Savoia e ricostruito da Guglielmo VII del Monferrato alla fine del secolo.

La parte trecentesca, ben visibile dalla zona del vecchio mulino ospita anche il corpo trapezoidale di una cappella adibita a chiesa. La parte antistante, ricostruita tra il 1600 e il 1644 da Francesco Provana, è la più recente. La facciata, attribuita al Guarini, fu completata nel 1700.

Quando Luisa, ultima discendente dei Provana, sposò Alessandro Guidobono Garofoli, Barone di S. Marzanotto, Conte di Sciolze e Signore di Carbonara, il Castello passò a questa famiglia che ne è tuttora proprietaria.

Un alto muro e la folta vegetazione del parco ne coprono la facciata.

L’edificio, trasformato in un complesso residenziale in stile barocco, ospita oggi eventi e cerimonie a pagamento ed è aperto solo in rare occasioni. Ma, se siete cosi fortunati da visitare Collegno proprio durante la festa patronale, avrete l’opportunità di accedervi.

Villa Richelmy di Collegno

Subito dopo il Castello merita almeno una visione la storica, splendida ed imponente Villa Richelmy di Collegno (da non confondere con l’omonima di Torino).

Villa Richelmy è una sobria dimora signorile edificata nel 1774 dall’architetto Carlo Ignazio Galletti, discepolo di Juvarra, per conto del banchiere Pietro Rignon.

Villa Richelmy di Collegno
Villa Richelmy di Collegno

È protetta da un grande parco cintato adorno di piante secolari ed elementi architettonici di pregio tra cui una piccola peschiera e uno scalone monumentale.

Il giardino è impreziosito da un anello di ortensie dalla rigogliosa fioritura e da una sofora giapponese pluricentenaria.

Dal parco si ha con un unico colpo d’occhio la prospettiva della villa e della scalinata, che conduce ad un terrazzamento da cui si gode uno splendido panorama.

Tra gli altri elementi di pregio di cui dispone la villa vi sono gli ampi salotti e la cappella interna dedicata a San Pietro in Vincoli.

Gli interni, di sobria e signorile eleganza, si conservano sostanzialmente intatti.

Ereditata da una figlia del fondatore, Gertrude Cottolengo Rignon, fu assegnata ad una figlia, Olimpia Cottolengo, che nel 1808 la recò in dote al banchiere Agostino Richelmy, figlio del presidente del tribunale di commercio di Torino e della nobile Maria Genoveffa Masino.

A differenza di molti edifici storici di Collegno, rimaneggiati nel corso del tempo e stravolti dalla loro essenza originale, Villa Richelmy è rimasta la stessa attraverso i secoli.

Oggi, in seguito ad importanti lavori conservativi la villa è abitata dai discendenti.

Villa Belfiore di Collegno

L’ultima dimora storica di interesse a Collegno è Villa Belfiore con la sua imponente facciata.

La villa, proprietà del Conte Alessandro Provana di Collegno, nel 1852 fu messa a disposizione delle figlie della Carità di San Vincenzo de Paoli. Queste per oltre 100 anni vi gestirono la prima scuola femminile locale.

Successivamente divenne il primo asilo infantile di Collegno, fino a quando nel 1994 la famiglia Guidobono Cavalchini Garofoli la donò al Comune di Collegno con il vincolo di destinarla ad attività di natura benefica per popolazione locale. Oggi è una Residenza per anziani.

Il Villaggio Leumann

Merita più che una semplice menzione il già citato Villaggio Leumann: uno dei pochi esperimenti in Italia di miglioramento delle condizioni di vita degli operai e delle loro famiglie.

Villaggio Leumann
Villaggio Leumann

Progettato e realizzato agli inizi del Novecento, dal magnate svizzero Napoleone Leumann in collaborazione con l’architetto Pietro Fenoglio, tra i maggiori esponenti dello stile Liberty a Torino il Villaggio Leumann costituisce una micro-città nella città, con case operaie, chiesa, ambulatorio, stazione ferroviaria, refettorio operaio, scuole, convitto per le operaie e altri servizi per la comunità.

Con la parziale chiusura del cotonificio Leumann nel 1972, si temette per le sorti del Villaggio, ma fortunatamente le amministrazioni locali riuscirono a salvarlo da speculazioni edilizie, sottoponendolo dal 1976 al vincolo di tutela della Sovrintendenza.

La ferrovia Tritatutto e la Stazionetta

Nel 1871 la vecchia diligenza viene sostituita dalla più importante delle due antiche ferrovie di Collegno: la Torino–Rivoli, una linea a scartamento ridotto che contribuì notevolmente allo sviluppo di Collegno.

Il trenino si rivelò fin da subito un servizio fondamentale per lo stabilimento Leumann. I prodotti tessili potevano essere trasportati a Torino e i lavoratori raggiungere più facilmente il luogo di lavoro scendendo alla Stazionetta Leumann, posta all’ingresso del cotonificio.

Al trenino, poi Littorina, fu dato l’appellativo “Trita-tutto” per i numerosi incidenti avvenuti.

Nel 1914 la linea fu trasformata in tramvia elettrica, nel 1941 viene sostituita da una filovia e nel 1955 definitivamente smantellata e sostituita con l’autobus.

La vecchia Stazionetta, che, persa la sua funzone fu abbandonata, è stata recuperata grazie ad interventi di conservazione ed è visibile all’entrata del Villaggio Leumann sul lato destro di Corso Francia giungendo da Torino (al momento solo parzialmente visibile, in quanto coperta dalle protezioni per i Lavori per il passaggio della metropolitana).

Resti romani

Nei basamenti dell’attuale chiesa di San Massimo, si trovano i resti di una chiesa proto-romanica. Altri oggetti archeologici di età romana, reperiti sul territorio comunale, sono oggi custoditi presso il Museo di Antichità di Torino.

Il vecchio ponte

Il ponte di Collegno fu costruito fra il 1707 e il 1713 in sostituzione di quello antico (di cui non si conosce la data di costruzione, ma testimonianze storiche ne attestano con certezza la presenza almeno a partire dal 1210) fatto abbattere per ordine di Vittorio Amedeo II poco prima dell’assedio di Torino.

Il ponte settecentesco era una costruzione particolare, composta da due ponti uno accostato all’altro. Chi vi passava con merci doveva pagare un pedaggio.

Uno, poco più largo di un carro agricolo che andava in discesa verso Venaria serviva per la viabilità e passava sotto un secondo ponte che reggeva il passaggio della bealera.

Il primo era a tre arcate in mattoni e pietre intonacate a calce, il secondo era a cinque arcate tre delle quali sopra la Dora. Le sponde per la bealera erano in lastre di pietra, le due arcate sopra in mattoni a vista.

Fu fatto saltare dai tedeschi in ritirata il 6 maggio 1945. Oggi rimane l’arcata sulla via Venaria, mentre la restante costruzione è stata rifatta in cemento armato nel 1946. La baelera è stata coperta per ricavarne un passaggio pedonale.

La fontana dedicata a Leumann

Nel 1904 fu realizzata da Giacomo Guglielmotti nella nuova piazza centrale di Collegno (oggi piazza IV novembre) e dedicata a Napoleone Leumann una fontana in pietra a quattro zampilli.

La fontana dedicata a Napoleone Leumann in piazza IV Novembre a Collegno
La fontana dedicata a Napoleone Leumann in piazza IV Novembre a Collegno

L’opera è un tributo al magnate svizzero a riconoscenza delle generose donazioni e dell’impegno civico verso Collegno, e, in particolare, per aver finanziato la realizzazione dell’impianto d’acqua potabile nel centro storico tramite diverse fontanelle.

Dispone di una colonna centrale a quattro lati da ognuno dei quali esce un getto d’acqua raccolta in una vasca con pianta a croce. Alla sommità presenta due volti umani. Originariamente era circondata da quattro paracarri in pietra sormontati da una sfera.

Nel ‘56 fu rimossa dalla sua posizione originale per motivi di viabilità e nei primi anni ’80 sistemata davanti a Villa Licia. In seguito è tornata alla sua collocazione originaria.

La pista collaudi Abarth

Collegno (TO) ospita uno dei più vecchi aeroporti italiani: l’Aeroporto di Torino-Aeritalia ‘Edoardo Agnelli’, del 1916.

A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, sulla pista 34 venivano collaudate le vetture Abarth da competizione. Tale pista esiste ancora ma non è più utilizzata.

Necropoli gota e necropoli longobarda (non visitabile)

Durante gli scavi per la metropolitana, nell’area dell’attuale Campo Volo, venne rinvenuto un piccolo insediamento longobardo, una necropoli longobarda e una gota, di dimensioni inferiori.

Le chiese

Parrocchiale di San Lorenzo (XVII - XVIII sec.)

Progettata tra il sei e il settecento venne terminata solo nel 1772.

La chiesa di San Lorenzo a Collegno
La chiesa di San Lorenzo a Collegno

Verso la fine del ‘700 fu arricchita di numerose pregevoli sculture lignee di Stefano Maria Clemente, tra cui dieci grandi statue di Santi, un gruppo della Santissima Trinità, la cassa dell’organo, il pulpito, il piccolo gruppo del Battistero di Gesù all’interno del Battistero e alcuni crocifissi.

L'interno della chiesa di San Lorenzo a Collegno
L'interno della chiesa di San Lorenzo a Collegno

Tra il 1815 e il 1816 fu ampliata e prese la forma che conserva oggi.

Ha un vano ad aula e quattro cappelle laterali dedicate a Sant’Ignazio, a Sant’Antonio, alla Madonna del Rosario e al Santissimo Crocefisso.

Gli affreschi più recenti sono di Nicola Arduino, che assieme a Casanova affrescò la Grande Basilica del Santo di Padova e altre illustri chiese.

Presenta un campanile del XIX secolo in cotto, realizzato utilizzando come materiale edilizio la recinzione muraria della vicina Certosa Reale.

Il campanile è incompiuto perché i Certosini della Certosa Reale di Collegno ritenevano che la struttura potesse disturbare la clausura del monastero.

Chiesa di San Massimo

Sorta nell’area del primo insediamento di Collegno come Tappa dell’antica Via Francigena, la chiesa di San Massimo, subì nei secoli molti interventi e modifiche.

La chiesa di San Massimo
La chiesa di San Massimo

Ricerche e scavi compiuti nel 1958 hanno portato a individuare la presenza di 4 fasi costruttive: una tardo romana, una alto-medievale, una romantica primitiva e una propriamente romanica.

L’edificio paleocristiano (fine del V secolo) fu edificato su un preesistente edificio romano riutilizzando in gran parte riutilizzati i muri perimetrali e il colonnato interno.

Sul lato breve occidentale, fu impostata la facciata, e ne fu sfondato il lato opposto per la costruzione di un’abside.

Il rinvenimento di due basi di colonne, di molte lastre in pietra destinate a ripartire i carichi delle colonne sulle fondazioni e di un frammento di capitello corinzio fanno supporre che la divisione interna dell’edificio paleocristiano riprendesse quella romana, a tre navate divise da colonnati.

La chiesa di San Massimo
La chiesa di San Massimo

La seconda fase, altomedievale (fine VIII secolo e la prima metà del IX), non modificò nella sostanza l’impianto paleocristiano: fu demolito il vano laterale nord e realizzata, previa chiusura della porta verso il presbiterio, una piccola abside ricavata in uno spesso muro.

La terza fase, romanica primitiva, risale al secolo XI e la quarta, romanica al XII secolo.

La fondazione del campanile è databile probabilmente ad una delle fasi romaniche.

La chiesa di San Massimo
La chiesa di San Massimo

Oggi la Chiesa appare con una facciata in cotto con archetti e lesene e coperta da tetto a capriate.

L’interno della chiesa è a tre navate con pilastri quadrati, le pareti sono intonacate; nell’abside sud vi è la statua lignea di san Massimo, eseguita intorno al terzo decennio del sec. XV.

Ritrovamenti

All’interno della navata meridionale furono ritrovate quattro tombe di età altomedievale delle quali solo una fu, parzialmente, documentata. Tali testimonianze hanno permesso di evidenziare un legame della chiesa con i longobardi cristianizzati.

Tre a cassa in muratura, chiuse da lastre di pietra, con il defunto disteso supino e orientamento ovest-est; la quarta posta di fronte alla porta di ingresso è delimitata da quattro lastre di pietra, una delle quali è l’epigrafe di Calpurnia Marcellina.

La tomba documentata, addossata alla parete laterale della navata, era costituita da tre lastre di pietra e conteneva un inumato deposto con uno Scramasax che ne fa presumere una datazione al VII secolo.

Un altro scramasax e un coltello recuperati in loco indicano la presenza di un altro paio di tombe simili. Al sud della facciata è stato individuato un altro gruppo di sepolture.

Cappella la Madonnina

Conosciuta tra i collegnesi come Santa Maria del Ponte o La Madunina, si trova all’inizio del ponte bealera.

La Cappella la Madonnina
La Cappella la Madonnina

Citata la prima volta nel 1581, venne ultimata nel 1791 e dedicata alla natività di Maria, forse in relazione ad un voto comunitario a seguito della liberazione che seguì la battaglia di Torino del 1706.

Ha un aspetto architettonico molto particolare: è più bassa rispetto alla strada e in origine vi si accedeva tramite un piccolo ponte. Peculiare anche il campanile triangolare di cui pochi sono gli esemplari esistenti in Piemonte.

Chiesa di Santa Croce

Sita nel centro storico di Collegno si presenta con una struttura risalente al 1714.

Si presume che sorga sulle basi della Cappella Disciplinatorum, già presente nel 1538, sede della Confraternita dei Battuti (o disciplinati): organizzazione laicale con attività caritatevoli, diffusa nella zona i cui confratelli uomini vestivano un saio bianco con un cordone mentre le donne uno giallo.

Chiesa di Santa Croce
Chiesa di Santa Croce

Quando nel 1608 l’allora Cardinale di Torino Carlo Broglia unificò le chiese chiese (S. Croce, S. Pietro, S. Lorenzo e S. Massimo) e quella di San Pietro fu demolita, Santa Croce assunse le funzioni di parrocchia, che mantenne fino al 1772, quando divenne l’unica chiesa officiante a Collegno, anche grazie alla sua posizione protetta dalle antiche mura del borgo.

Il campanile, tra le più belle costruzioni della città, fu aggiunto nel 1742 come torre civica dalla Comunità come e sopraelevazione del già esistente campanile, distinguibile dai mattoni a vista.

Nella prima metà del XIX secolo fu completata ed arricchita con gli arredi liturgici e nel 1925, a facciata, originariamente in mattoni, venne ricoperta con restauri.

All’interno è conservato un organo ottocentesco rinnovato nel 1890 e tuttora funzionante.

Cappella di San Lorenzo (XIII sec.)

Da non confondere con la più grande Parrocchiale di San Lorenzo, nei pressi del portale della Certosa, la piccola Cappella di San Lorenzo si trova presso il cimitero di Collegno ed è uno degli edifici più antichi di Collegno.

Della vecchia chiesa del XIII secolo rimane solo il Campanile di San Lorenzo.

Intorno a quegli anni il parroco di Collegno Don Rejnaldi, Padre Priore degli Agostiniani Scalzi del Convento di San Pancrazio di Pianezza, propose alla Comunità di abbattere l’antica chiesa parrocchiale per costruire la cappella e recintare l’area circostante in modo da potervi realizzare un cimitero ed evitare le sepolture in parrocchia, causa di gravi problemi igenici.

La Cappella di San Martino (XVIII sec.)

Eretta dalla famiglia Negro lungo l’attuale via Alpignano per adempiere ad un voto è oggi di proprietà del comune in parziale stato di degrado.

Fino ad alcuni anni fa custodiva ex-voto donati dai soldati provenienti dalla Campagna di Adua e della Campagna d’Africa che però furono trafugati da ignoti.

Dalla sua fondazione agli anni ‘40 fu chiamata Porta Bossola per via dell’antico sistema di difesa di rovi di spine (in piemontese bosu) che la circondava.

Chiesa di Santa Elisabetta (Villaggio Leumann)

Al centro del Villaggio Leumann si trova un eccentrica chiesa in stile Liberty con tanti spunti eclettici. Una lapide murata all’interno della chiesa ne ricorda la fondazione nel 1907 da parte di Napoleone Leumann.

Le vetrate e la decorazione interna della chiesa, realizzate da un’equipe di pittori e decoratori sono Liberty.

La Chiesa di Santa Elisabetta a Collegno
La Chiesa di Santa Elisabetta a Collegno

Il Prospetto principale è fortemente caratterizzato dalla presenza dei due campanili in facciata e dal pronao d’ingresso costituito da una breve scalinata e da quattro colonne, che come i capitelli appaiono inusuali e al di fuori degli schemi architettonici classici.

I due campanili, con chiari riferimenti alle chiese d’oltralpe, sono arricchiti da decorazioni Liberty, e presentano sulla parte croci in ferro battuto.

Il rivestimento della facciata è realizzato con alternanza di mattoni a vista e fasce di cemento.

Curiosità e leggende

Le tre nosere delle masche

Accanto all’attuale cimitero, in prossimità dell’area in cui sorge Villa Richelmy, vi è un vasto terreno erboso (oggi recintato) con alcune piante di noci conosciuto come le tre nosere, in piemontese i tre noci.

In passato questo sito era luogo di incontro tra le masche (streghe) di Collegno e quelle dei luoghi vicini, per la celebrazione dei Sabba.

Quando si svolgevano i riti, i collegnesi terrorizzati non mettevano piede fuori casa e cospargevano i perimetri delle proprie case con erbe precedentemente purificate nelle notti dei prodigi (la festa di San Giovanni, il 24 giugno e dell’ Apostolo Giovanni, il 27 dicembre).

Alle prime luci dell’ alba le masche sparivano lasciando sotto le tre nosere gli avanzi dei riti, che nessuno osava toccare. Gli abitanti credevano infatti che chiunque avesse toccato gli avanzi abbandonati dalle streghe si sarebbe ammalato dei terribili morbi.

Fonte: Sito del Comune di Collegno, La leggenda dei tre noci

Lo strano caso dello smemorato di Collegno

Il caso dello smemorato di Collegno è una famosa vicenda giudiziaria e mediatica avvenuta tra il 1927 e il 1931, che coinvolse un individuo, apparentemente affetto da amnesia, ricoverato presso il manicomio di Collegno.

Lo smemorato fu identificato da due differenti famiglie che lo riconobbero sia come il professor Giulio Canella (disperso durante la prima guerra mondiale), sia come Mario Bruneri, impostore e latitante.

Lo smemorato di Collegno
Lo smemorato di Collegno

Per l’interesse mediatico suscitato lo smemorato di Collegno divenne lo smemorato per antonomasia. L’espressione entrò nell’uso comune per indicare una che finge di non capire: il finto tonto.

La vicenda

Durante la prima guerra mondiale l’incertezza sulla sorte di molti soldati al fronte fece sorgere il problema della corretta identificazione di coloro che a distanza di tempo potevano rientrare presentandosi come dispersi.

Non furono pochi gli uomini che, approfittando di qualche somiglianza con uno scomparso, tentarono di prenderne il posto.

Nel marzo del 1926 nel settore ebraico del cimitero di Torino venne notata la sottrazione di alcuni vasi funerari. Il custode fermò un uomo che fu subito arrestato.

Aveva circa 45 anni, bei baffi a manubrio, una folta barba e modi cortesi. Appariva insano di mente e non era possibile ottenere da lui indicazioni circa la sua identità.

In questura fu fotografato e gli vennero prese le impronte. Nelle tasche, tra i pochi oggetti, fu trovata una cartolina illustrata senza indirizzo con scritto:

“Al mio caro babbo, accetta gli auguri di un buon onomastico che di cuore ti invia il tuo affezionatissimo Giuseppino”.

In seguito ad una una visita medica, lo Smemorato fu ricoverato al manicomio di Collegno e la direzione della struttura fece pubblicare un annuncio con la sua fotografia su La Domenica del Corriere e sull’Illustrazione del Popolo.

“Chi lo conosce?”

Ricoverato il giorno 10 marzo 1926 nel manicomio di Torino (casa Collegno). Nulla egli è in condizione di dire sul proprio nome, sul paese d’origine, sulla professione. Parla correntemente l’italiano. Si rileva persona colta e distinta dell’apparente età di anni 45.”

Ne seguì un intervista de La Stampa.

In risposta agli annunci diversi inviarono lettere e si presentarono al manicomio, pensando di aver riconosciuto la persona ritratta nella foto.

Alcuni identificarono lo sconosciuto come il professor Giulio Canella: nato a Padova il 5 dicembre 1882, laureato in filosofia e in lettere, direttore della scuola di Verona nella quale insegnava come professore di pedagogia e morale.

Fondatore, nel 1909, insieme a padre Agostino Gemelli, della Rivista di filosofia neo-scolastica.

Sposatosi nel 1913 con Giulia Canella, nata a Rio de Janeiro e figlia di suo cugino Francesco, possidente in Brasile, dalla quale ebbe due figli: Margherita e Giuseppe.

Sotto le armi tra il 1905 e il 1906, richiamato nel 1915, poi esonerato e richiamato nuovamente, fu considerato disperso il 25 novembre 1916 dopo un’azione nella zona di Monastir, in Macedonia.

I pochi soldati superstiti all’operazione riferirono che il capitano Canella cadde gravemente ferito dietro un roccione, ma le ricerche della salma furono vane: nessuno ne seppe più nulla di lui.

Il 27 febbraio Giulia Canella si recò al manicomio di Collegno per incontrare lo sconosciuto e verificarne l’identità.

Non appena vide lo Smemorato, lanciò un grido, gli si gettò alle ginocchia e lo abbraccio dichiarando che si trattava senza dubbio di suo marito.

La donna affermò che la cartolina trovata in tasca allo Smemorato fosse stata scritta dal figlio minore Giuseppe e inviata al marito attraverso la Croce Rossa.

Il 2 marzo lo Smemorato, considerato Giulio Canella, le venne affidato e lasciò l’ospedale.

Dopo 5 giorni giunse alla questura di Torino una lettera anonima che ipotizzava l’identificazione dello Smemorato con Mario Bruneri: nato a Torino il 18 giugno 1886, tipografo, sposato e successivamente separato da Rosa Negro e padre di Giuseppe.

Chiamato alle armi nel 1915 e congedato nel 1918.

Arrestato 3 volte, processato e condannato per truffe e false personalità.

Nel 1923 Mario Bruneri rubò 10.000 lire e lasciò Torino con l’amante Camilla Ghedini, trasferendosi a Genova sotto il nome di Raffaele Lapegna, fino all’agosto 1925. A Milano divenne Adolfo Mighetti e tornato a Torino nel 1926 Ziolfo Mighetti.

L’amante riferì che Bruneri la lasciò un mattino dicendole che si sarebbe recato al cimitero e chi si sarebbero visti più tardi.

Lo Smemorato fu quindi rintracciato a San Pietro Montagnon, dove si era recato in villeggiatura con Giulia Canella, e convocato a Torino, dove fu riconosciuto come Mario Bruneri da familiari e conoscenti, compresa l’amante.

Già prima del confronto la questura di Verona richiese alla Scuola superiore di polizia di effettuare un confronto fotografico nel quale vennero evidenziate varie differenze che ne decretarono come falsa l’identificazione come Canella.

Più tardi furono confrontate anche le impronte digitali che diedero riscontro positivo dell’identità come Bruneri.

Con la nuova identificazione, lo Smemorato venne riportato in manicomio.

Il perito incaricato di stabilirne l’identità concluse che si trattava di Bruneri aggiungendo che non presentava sintomi di infermità mentale e che l’amnesia era simulata.

Gli furono notificati tre ordini di cattura e fu dichiarato in arresto, ma, il collegio giudicante, ritenendo non completa l’identificazione come Bruneri ai fini penali, attenendosi al principio in dubio pro reo dichiarò come non applicabili gli ordini di cattura.

Sia Giulia Canella che i familiari di Bruneri fecero richiesta per il rilascio e l’affidamento dello Smemorato.

Visto il conflitto nelle richieste il tribunale stabilì l’affidò in custodia all’avvocato Zanetti, che lo consegnò immediatamente a Giulia Canella, più facoltosa.

A gennaio 1928 la famiglia Bruneri citò in giudizio lo Smemorato affinché venisse identificato come Bruneri. Il tribunale civile di Torino stabilì l’identità dello Smemorato come Mario Bruneri.

Lo Smemorato ricorse in appello, dichiarando di essere Giulio Canella. Ma la Corte d’appello di Torino confermò la sentenza di primo grado.

Si giunse al ricorso per Cassazione e la I sezione della Corte di Cassazione annullò la sentenza della Corte d’appello di Torino, considerando errore inescusabile l’aver negato l’esercizio della prova contraria.

Gli atti passarono alla Corte d’appello di Firenze che confermò la sentenza di primo grado. Nella nuova sentenza fu esaminato minuziosamente l’insieme delle prove che motivavano il giudizio e fu giustificato il rigetto della richiesta di nuove prove da parte della difesa in quanto considerate ininfluenti o addirittura contrarie alla legge.

Fu esaminato l’aspetto fisico dello Smemorato.

Fu considerata l’altezza: Bruneri aveva circa la stessa altezza dello Smemorato, mentre Canella era circa cinque centimetri più alto. La diversa attaccatura dei capelli. La presenza di segni particolari: Bruneri era stato operato per l’asportazione di una costola e lo Smemorato presentava una cicatrice. Canella aveva un neo vicino ai baffi e una cicatrice su un tallone, lo Smemorato no.

Furono ricostruiti tutti gli spostamenti di Bruneri fino al marzo 1926 e gli abiti indossati dallo Smemorato furono riconosciuti come appartenenti a Bruneri da diversi testimoni.

La cartolina in possesso dello Smemorato al momento dell’arresto, identificata da Giulia Canella come scritta dal figlio Giuseppe, risultò essere stata prodotta solo dall’anno 1920 e la perizia calligrafica la attribuì al figlio di Mario Bruneri.

Lo Smemorato aveva una conoscenza molto limitata del latino, la grafia dello Smemorato presentava corrispondenze con quella di Bruneri e in alcune lettere a Giulia Canella utilizzò le stesse citazioni già utilizzate da Bruneri in lettere precedenti.

La difesa dello Smemorato era principalmente basata su una presunta sostituzione: il 26 marzo 1926 sarebbero state arrestate due diverse persone, una per furto (Bruneri) e una perché insana di mente (Canella).

Secondo gli avvocati, Bruneri, dopo l’identificazione sarebbe riuscito ad allontanarsi dalla questura scambiando i propri abiti con quelli dello smemorato Canella, che sarebbe stato ricoverato in manicomio.

Vi erano infatti due diverse pratiche presso la questura, ma fu provato che furono dovute a due diversi procedimenti riguardanti la stessa persona, uno relativo al furto e l’altro relativo all’internamento in manicomio.

Bruneri fu quindi nuovamente arrestato il 5 giugno 1931 e condotto alle Carceri Nuove di Torino, per essere trasferito al carcere di Pallanza.

Anche contro l’ultima sentenza fu presentato ricorso, rigettato definitivamente dalla Corte di Cassazione a sezioni unite.

All’inizio del 1932 furono presentate due domande di grazia: l’8 gennaio Giulia Canella si appellò alla regina Elena in occasione del suo genetliaco, l’11 gennaio la famiglia Bruneri richiese invece clemenza al re Vittorio Emanuele III.

Nessuna delle due fu accettata, ma nel 1932, grazie ad un’amnistia, la pena di Bruneri fu ridotta e il 1º maggio 1933 fu rilasciato.

Al momento della firma del foglio di via obbligatorio il commissario invitò lo Smemorato a porre la firma sul foglio e lo Smemorato sovrappensiero rispose: “Debbo firmare col nome di Bruneri?”.

Il funzionario replicò affermativamente e Bruneri terminò con: “Firmo col nome di Bruneri ma ricordatevi bene che sono Canella”.

Tra il 1928 e il 1931 Giulia Canella ebbe con Mario Bruneri tre figli, registrati all’anagrafe come Canella. A inizio settembre fecero richiesta dei passaporti per trasferirsi in Brasile, ma la partenza dovette essere rinviata perché inizialmente a Bruneri fu negato il visto dal consolato in quanto condannato.

Lasciarono l’Italia il 19 ottobre sul transatlantico Conte Biancamano insieme ai cinque figli. In Brasile Bruneri si fece iscrivere all’anagrafe come Giulio Canella e imparato il portoghese tenne conferenze e pubblicò libri e articoli.

Morì a Rio de Janeiro l’11 dicembre 1941.

Nonostante la quantità di evidenze scientifiche, documentali e testimoniali i periodici si divisero tra quelli che sostenevano che fosse Canella e quelli che si opponevano. Sulla stampa i sostenitori delle due diverse tesi vennero identificati come bruneriani e canelliani o bruneristi e canellisti.

Dopo la seconda guerra mondiale i canelliani tentarono in più occasioni di ottenere una revisione del processo, anche con la presentazione di nuove prove.

Ma nel marzo 1960 vennero rese pubbliche cinque lettere scritte alla madre da Mario Bruneri quando era ricoverato in manicomio e una lettera che sarebbe stata inviata da Giulia Canella alla famiglia Bruneri nel giugno del 1929 per promettere una ricompensa se non avessero riconosciuto il loro congiunto.

Il 9 luglio 2014 fu presentato alla famiglia Canella il risultato del confronto del DNA dei discendenti certi di Giulio Canella e di un figlio dello Smemorato, che confermò non trattarsi di Giulio Canella.

Al caso Bruneri-Canella sono ispirate opere teatrali di Michele Galdieri, Luigi Pirandello (nel dramma in tre atti “Come tu mi vuoi”), Eduardo Scarpetta (la commedia “L’uomo che smarrì se stesso), film (“Lo smemorato di Collegno” di Sergio Corbucci con Totò nel ruolo dello smemorato) e Uno Scandalo per bene di Pasquale Festa Campanile, e libri (Il teatro della memoria di Leonardo Sciascia, Lo smemorato di Collegno di Lisa Roscioni, e L’uomo di nessun colore. La vera storia dello smemorato di Collegno di Christine Dal Bon).

L’elettricista di Collegno: lo psichiatra torturatore

Giorgio Coda fu uno psichiatra e professore universitario esperto di antropologia criminale, vicedirettore del manicomio di Collegno e direttore della struttura per minori Villa Azzurra di Grugliasco negli anni ‘70.

Villa azzurra a Grugliasco
Villa azzurra a Grugliasco

Un uomo che si fece carnefice e portatore di atroci sofferenze verso orfani, poveri, persone sole, bambini enuretici e vivaci, omosessuali, masturbatori, alcolisti e tossicodipendenti.

Soggetti la cui condizione di marginalità sociale e il cui isolamento, rendeva vittime perfette per i suoi supplizzi.

Coda si forma con il dottor Treves, un pezzo grosso in Italia nel campo della terapia elettroconvulsivante (comunemente detta elettroshock). È stimatissimo nell’ambiente accademico dell’epoca: onori, cattedre, riconoscimenti, nomine e promozioni. Più diventa importante, più considera i malati come cavie da laboratorio.

Nelle pratiche del dottor Coda non vi è alcun fine curativo, come confermerà la sentenza del processo che lo vedrà imputato. Per l’elettricista, come verrà soprannominato dalla stampa, i pazienti non sono individui da aiutare e curare, ma residui d’umanità sui quali esercitare liberamente ogni tipo di nefandezza.

Un infermiere afferma che Coda, sentendo cantare un malato nel parco gli avrebbe ordinato “portami su quello che cantava” per sottoporlo all’elettromassaggio. Espressione in cui può leggersi senza ombra di dubbio il disprezzo di un uomo nei confronti della vita umana.

L’elettromassaggio di Coda era un utilizzo perverso e atroce dell’elettroshock. Due elettrodi venivano applicati alle tempie degli internati non sedati che venivano attraversati da scosse brevi ma intense per non consentirgli di perdere i sensi in modo da provare il maggior dolore possibile. Lo stesso sistema viene da Coda utilizzato sui genitali. Ai pazienti viene negata perfino la la gomma di protezione per i denti: fatto che provoca a diversi internati la rottura di tutti i denti.

Il ricovero di Alberto Bonvicini

Albertino scappa, cerca di tornare dalla mamma naturale, una prostituta a cui è stato tolto. Il non c’è: è fuggito arruolandosi nella Legione Francese.

Il 3 agosto del 1967 Alberto ingoia una biglia di vetro dopo un litigio con un compagno dell’istituto che lo ospita.

All’ospedale di Casale Monferrato riceve le cure del caso, ma poi si ammala. Costretto a letto diviene irrequieto. I medici allora lo trasferiscono in neurologia, dove Albertino rompe tutto ciò che gli capita a portata di mano.

Da quel momento inizia la discesa che lo porterà al ricovero all’interno Villa Azzurra, la clinica psichiatrica minorile di Grugliasco di cui Coda è direttore.

L’inizio del processo a Coda

È un giorno di Aprile del 1968, l’assistente sociale Maria Repaci, del Centro tutela minorile di Torino, sta ascoltando i racconti di un bambino che riferisce terribili episodi: bambini e ragazzi legati al letto per giorni e giorni, con le mani bruciate sui termosifoni, incontri di lotta organizzati per risolvere le liti tra i giovani pazienti e, peggio di tutto, sedute di elettroshock indiscriminate.

Il bambino riferisce di essere stato legato al letto per settimane.

La Repaci non attende oltre e prepara un rapporto dettagliato sulla permanenza di Alberto Bonvicini a Villa Azzurra che prontamente invia al presidente del Tribunale dei minori di Torino.

Villa azzurra a Grugliasco
Villa azzurra a Grugliasco

Il presidente del tribunale trasmette a sua volta un rapporto alla Procura della Repubblica: dopo un anno l’inchiesta finisce nelle mani di un giudice istruttore.

Dagli interrogatori viene fuori l’esistenza di un sistema di tortura ai danni delle persone ospitate nelle strutture dirette da Coda. Emergono particolari raccapriccianti: alcuni ex degenti risultano non avere più denti, spezzatisi a seguito delle sedute di elettroshock.

Come gli animali degli allevamenti, nascosti agli occhi della gente, chiusi tra le mura del Manicomio, i malati sono esposti ad ogni tipo di sopruso, senza nessun controllo.

Il Coda mi fece denudare e mi praticò un elettromassaggio pubico, che mi procurò grande sofferenza e la perdita di feci e urina. Quando venni riportato nella mia sezione, a causa dello spasmo provocato dall’elettromassaggio e avendo perso la gomma che tenevo in bocca mi ruppi tutti i denti.

Così Giovanni, uno dei pazienti di Coda racconta uno dei tanti trattamenti con l’elettroshock subiti da Coda stesso durante la detenzione. Una delle cinquemila sedute di elettromassaggi che lo psichiatra praticò nella sua carriera.

Coda portava la macchina per l’elettromassaggio in processione tra i reparti, a mo’ di ammonimento. Lo strumento di tortura veniva utilizzato regolarmente: qualsiasi motivazione era valida per finire sotto le sue scosse.

Una volta posizionata a fianco del letto del paziente, il malato viene immobilizzato, Coda applica gli elettrodi e da il via al rituale.

I pazienti si contorcono per il dolore, urlano, non trattengono più feci e urina, alcuni perdono i denti, altri la lingua. Gli altri attendono terrorizzati il proprio turno: come poveri animali al mattatoio che consci di ciò che sta accadendo ai loro simili aspettano inesorabilmente la morte per mano di esseri senza scrupoli.

Il 26 luglio 1970 l’Espresso pubblica la foto di una bambina con grandi occhi neri e sguardo profondo e rassegnato: è nuda, con mani e piedi legati alle sbarre del letto. Scoppia lo scandalo.

Il 4 luglio 1974 al Tribunale di Torino inizia il processo a Coda.

Per la prima volta in Italia i pazienti di un ospedale psichiatrico sono chiamati a testimoniare come normali cittadini.

Il pubblico ministero chiede l’assoluzione dell’imputato, ma il Tribunale rigetta la richiesta e l’11 luglio 1974 condanna Coda a 5 anni di carcere – che non sconterà mai - per “aver fatto cattivo uso delle terapie mediche e dell’elettroshock in regione transcranica e lombopubica” e perché “in un momento in cui la scienza offriva farmaci capaci di attutire la spaventosa sofferenza degli elettroshock, egli non ne face uso”.

Tre anni gli vengono amnistiati.

«Pare al tribunale che nell’imputato ricorra in pieno e integro il dolo» riporta la sentenza di primo grado, «quando sottoponeva a punizione elettrica le parti offese aveva perfetta consapevolezza della illegittimità di tali punizioni, del loro carattere vessatorio, della loro identità a creare nei soggetti passivi una totale soggezione ai voleri del Coda».

Un medico che il giudice Venditti definisce come “chiuso in una torre d’avorio, protetto da chi doveva controllare quanto succedeva all’interno dell’ospedale e insensibile alle sofferenze dei malati”.

Un cavillo rischia di alleggerire ulteriormente la posizione dello psichiatra: Coda risultava essere ancora giudice onorario presso il Tribunale dei minori e il codice di procedura penale stabilisce che un giudice non può essere processato presso il tribunale in cui espleta le sue funzioni. I giudici della Corte d’appello rinviano quindi gli atti alla Cassazione in attesa di una pronuncia.

Coda si dichiara vittima di una macchinazione. Alcuni giornali lo difendono e utilizzano il termine sevizie tra virgolette.

Coda scampa il carcere ma con la condanna arriva l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Impossibilitato a proseguire il suo operato al Manicomio inizia allora privatame la professione di medico, dedicandosi all’attività ambulatoriale a Torino nel quartiere Cit Turin.

«Aprite, polizia!»

Sono le ore 18.40 del 2 dicembre 1977, quando quattro uomini suonano alla porta del suo studio al primo piano di via Goffredo Casalis 39.

Il commando irrompe e la segretaria viene chiusa in bagno. Coda tenta di afferrare la pistola con cui viene minacciato, ma viene sopraffatto.

Uno degli uomini si rivolge a Coda: “Ecco cosa capita a chi legava i bambini al termosifone perché non urlassero”. Due colpi lo raggiungono alle spalle, uno al ginocchio, finche la pistola, una calibro 7.65, s’inceppa.

Alle 19, dopo aver tagliato i cavi del telefono, il commando si da alla fuga,.

L’elettricista viene trovato con i polsi legati al termosifone e un cartello appeso al collo:

Il proletariato non perdona i propri torturatori.

A terra due proiettili inesplosi.

Il primo a prestare soccorso a Coda è un farmacista della zona. Coda arriva alle Molinette in prognosi riservata.

Qui ad attenderlo c’è la redazione della Gazzetta del Popolo che ancora non conoscono l’identità del ferito.

I presenti riferiscono che quando il medico vide i colpi esclamò: ‘Cristo, lo hanno crocifisso!” e chiese a Coda “Ma lei chi è, perché l’hanno ridotta così?’.

Il ferito non risponde e si rifiuta di riferire il suo nome. Al suo arrivo il primario gli pose la stessa domanda: “Ma che cosa ha fatto perché la riducessero così?”.

Solo dopo molte insistenze il paziente finalmente rompe il silenzio: “Mi chiamo Coda”. Nella stanza scese il gelo. «Sì, sono io, quello dell’elettroshock. Mi davano del porco e del bastardo, ma io sono solo un medico e tanta gente ha ricevuto benefici da me. Questi terroristi mi hanno processato e condannato in un minuto. Fate qualcosa, ho un male terribile.».

La modalità del ferimento non sono casuali. Durante il processo a Coda era emerso tra gli episodi,di un bambino legato a un termosifone e poi liberato che aveva riportato ustioni alle braccia e alla schiena.

Pochi giorni dopo il ferimento, la crocifissione di Giorgio Coda viene rivendicata dalle Squadre di azione proletaria, fino ad allora sconosciute.

Sono in tanti a Torino a pensare che sia stato fatto per Albertino, il bambino seviziato da Coda. Negli ambienti della sinistra extraparlamentare Alberto Bonvicini è infatti ben conosciuto.

Finalmente libero Alberto incontra la protesta giovanile degli anni Settanta e inizia a militare negli ambienti della sinistra armata. Viene coinvolto nell’assalto all’Angelo Azzurro in cui perde la vita uno studente torinese.

Arrestato sconta una pena di due anni e mezzo. In questi anni l’eroina entra nella sua vita.

Tornato in libertà Enrico Deaglio lo vuole al suo nuovo quotidiano. Conosce Giuliano Ferrara che ci si affeziona profondamente e lo introduce alle sue trasmissioni tv: “Linea Rovente”, “Il testimone”, “L’Istruttoria”.

Quando sembra che per lui stia per arrivare la normalità scopre di essere malato di Aids: moriràin tre anni.

Giorgio Coda invece è tutt’ora vivente. Molti dei suoi pazienti, come Albertino, malgrado avessero il favore dell’età, non gli sopravvissero.

I crimini di Coda sono stati trattati dal giornalista Alberto Papuzzi nel libro “Portami su quello che canta” e il processo è stato rappresentato brevemente nel film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana.

La storia di Alberto Bonvicini è raccontata nel libro Fate la storia senza di me di Mirko Capozzoli.

Il dell’elettricista di Collegno fu determinante nell’accendere i riflettori sulle terribili violenze che venivano praticate nelle strutture manicomiali, contribuendo alla crescita di quel movimento guidato da Franco Basaglia che avrebbe portato ad una riforma totale del mondo psichiatrico in Italia. Sebbene la legge Basaglia non prevedesse esplicitamente che gli ospedali psichiatrici venissero chiusi, ne ha di fatto chiuso la maggior parte.

Quando il serial killer Minghella colpì a Collegno

Un’altra triste vicenda, oltre a quella che ha come protagonista l’elettricista avvolge Collegno.

La notte tra il 16 e il 17 febbraio 2001, Tina Motoc, una prostituta moldava di 20 anni, viene brutalmente assassinata.

Il suo corpo nudo viene ritrovato dopo alcuni giorni dalla sua scomparsa lungo un canale di irrigazione che attraversa un campo presso lo svincolo Pianezza-Collegno della tangenziale di Torino.

Tina è morta soffocata dai suoi collant, che poi sono stati usati per legarle le mani dietro alla schiena.

Il suo corpo martoriato presenta diverse ferite sul volto e sul capo. Le gambe e il piede destro sono stati bruciati con i suoi vestiti.

Quello di Tina non è un caso isolato: sono diverse le prostitute uccise negli ultimi tempi nella zona di Torino.

Marianthi Mimidi, 20 anni, rinvenuta con il corpo parzialmente carbonizzato e la testa fracassata in nel 1996 un bosco nei pressi di Avigliana. Nel 1997, dietro a un distributore di benzina a Corso Unione Sovietica, strangolata con le sue calze, è la volta di una prostituta albanese di 24 anni, di nome Yulia. Nel 1998, nella campagna sull’altro lato della statale rispetto all’attuale Conad di Rivoli, in un luogo frequentato da prostitute e clienti, viene strangolata con una sciarpa e lasciata nel bosco seminuda Giuliana Vilali, ragazza macedone di 23 anni.

Tra gli inquirenti si fa strada l’ipotesi che in quel di Torino Ovest vi sia un serial killer.

Tina Motoc

Florentina Motoc nasce nel 1980 a Dorohoi, una municipalità rumena di 30.661 abitanti, situata nella regione storica della Moldavia. All’improvviso la famiglia si ritrova senza più alcuna fonte di reddito. Tina va via per cercare fortuna e poter aiutare la sua famiglia accetta la proposta per un lavoro in Turchia.

È finita nella rete dei trafficanti che la obbligano a prostituirsi. È diventata una merce.

Quando rimane incinta e i suoi protettori le concedono di tornare nel suo Paese per dare alla luce la sua bambina ma non appena può di nuovo prostituirsi i suoi aguzzini la prelevano e la portano in Italia, a Torino, dove è immediatamente messa sulla strada.

Il 9 febbraio del 2001 durante una fredda giornata invernale un cliente le si avvicina e i due si appartano. Ha solo 21 anni ed è l’ultima volta che viene vista viva.

Otto giorni dopo il suo corpo viene ritrovato senza vita. L’orologio fermo alle 4.46 e sul corpo i segni delle tante sevizie subite.

La cattura di Minghella

Il 7 marzo del 2001 gli inquirenti individuano come responsabile dell’omicidio, Maurizio Minghella, già noto alle forze dell’ordine.

Minghella viene arrestato per aver aggredito e derubato una prostituta albanese, vicino al luogo in cui era stata ritrovata Tina.

A casa di Minghella, le forze dell’ordine trovano scarponi sporchi di fango e foglie secche. Alla fidanzata di Minghella viene sequestrato il cellulare, regalato dal compagno a San Valentino, che risulterà essere di Tina.

Oltre a rapine, violenze sessuali e sequestro di persona nei confronti di altre prostitute della stessa zona si scopre che Minghella ha lasciato dietro di se tra il 18 aprile del 1978 e il 17 febbraio 2001 una scia di sangue. Le vittime sono tutte donne: 10 quelle accertate e almeno 15 quelle presunte.

Viene fuori che gli ultimi omicidi, quelli di Torino, sono avvenuti mentre Minghella è in semi liberta per gli stessi crimini: nel 1978 ha ucciso cinque donne a Genova.

Per i primi omicidi il serial killer fu condannato all’ergastolo, ma in carcere si proclama innocente e grazie anche a Don Andrea Gallo che ne chiede la revisione del processo, molto presto ottiene la semilibertà.

Da genova viene trasferito al carcere delle Vallette di Torino ed entra nella comunità di recupero di don Ciotti lavorando come falegname dalle 17 alle 22.

Ma in semilibertà Minghella continua a violentare e uccidere. L’ultimo omicidio accertato è quello di Tina.

Le tracce di DNA e le impronte ritrovate nei luoghi dei delitti, la suola delle sue scarpe con abbondanti tracce di peridotite, roccia rara nel Torinese ma presente in grandi quantità nel luogo in cui fu rinvenuto il cadavere di della Motoc, le modalità e gli orari degli omicidi non lasciano dubbi: Maurizio Minghella è tornato ad uccidere.

Condotto nel carcere delle Vallette, nella primavera 2001 Minghella tenta di evadere fuggendo dalla lavanderia ma viene bloccato. Rinchiuso nel carcere di Biella, la mattina del 2 gennaio 2003 si fa ricoverare per dolori al petto e al braccio sinistro: questa volta riesce a fuggire ma viene arrestato alle 22 dello stesso giorno nei pressi della stazione ferroviaria. Oggi è rinchiuso nel carcere di Pavia.

Visitare Collegno: conclusioni

Siamo giunti al termine di questa guida dove abbiamo parlato della storia della città di Collegno, le vicende e delle curiosità che la riguardano e di cosa vedere a Collegno.

Ci auguriamo che la nostra guida di Collegno vi abbia fatto venire voglia di visitare questa città, lontana dal turismo di massa e che sceglierete proprio la città di Collegno Torino come prossima meta alternativa per il vostro weekend! 😉

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Alessandro Lussi
Di origine friulana e calabrese, risiedo a Torino.
Copywriter professionista, ho smesso di lavorare come programmatore per dedicarmi full-time alla mia passione: la scrittura.