Chi a ved Turin e nen la Venerìa, a ved la mare e nen la fija.
Chi vede Torino e non vede la Venaria, vede la madre e non la figlia
Così recita un antico detto piemontese. Ma cosa vedere a Venaria Reale?
Alle porte della città di Torino, si innalza una delle massime rappresentazioni del paesaggio Settecentesco e dell’architettura barocca: è Venaria Reale, con la sua reggia e il suo centro storico. Una Versailles italiana – sorta qualche anno prima della sua contemporanea francese - che non ha nulla da invidiare all’iconica residenza parigina.
Fondata in epoca romana con il nome di Altessano, si divise nel XVI secolo in Altessano Superiore e Altessano Inferiore. Nella parte Superiore tra il seicento ed il settecento fu realizzata per i Savoia - la dinastia che regnò in Italia sino alla fine della seconda guerra mondiale – la reggia, come residenza di piacere e di caccia (ars venatoria).
Proprio dalla funzione venatoria della residenza regale di caccia, il nome di Altessano Superiore divenne Veneria e poi Venaria. Unico comune piemontese oltre a Torino a vantare sul territorio più di una residenza sabauda: oltre alla Reggia, il Borgo castello, con gli appartamenti reali del 700.
Tra i progettisti della Reggia vi è Filippo Juvarra, uno dei più grandi architetti del barocco. Il complesso, assieme al Parco regionale della Mandria e l’antico borgo conferisce al luogo, specialmente alle luci della sera, un fascino regale e un aspetto d’altri tempi.
Nel 1997 è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco. Nel 2014 l’insieme museale di Venaria è stato, tra i musei a gestione statale, il settimo più visitato in Italia, collocandosi al 1º posto per gradimento da parte dei turisti stranieri e 1º posto come polo culturale italiano.
La mappa: Venaria Reale (TO)
Nella mappa qui sotto abbiamo indicato i punti di interesse storici in marrone, quelli naturali in verde e la pista ciclo-pedonale in fucsia.
Abbiamo segnalato inoltre i parcheggi dove ad oggi (Settembre 2022) è tollerata la sosta in camper o van. Infine abbiamo contrassegnato i punti in cui è possibile approvvigionarsi di acqua.
Tutte queste informazioni, così come il fatto che il parcheggio venga tollerato, potrebbero in futuro variare.
La Reggia di Venaria: dal trionfo barocco alla Belle Epoque

Il Piemonte è costellato di palazzi e reggie, scrigni di eleganza e splendore, custodi di un’epoca regia che segnò un lungo periodo di questo paese.
Palazzo Reale, Castello del Valentino, Palazzina di caccia di Stupingi, Castello di Racconigi, Castello di Rivoli e Reggia di Venaria sono solo alcune tra le più conosciute.
Al centro del circuito delle Residenze Reali del Piemonte la Reggia di Venaria, costruita dal 1658 al 1679, – per semplicità detta anche semplicemente La Venaria – è uno dei luoghi più ricchi di fascino in Piemonte. Tra le più sontuose residenze reali europee e più alte espressioni del barocco universale è caratterizzata dal gusto scenografico del Tardo Barocco e del Rococò di Juvarra, con alcuni interni seicenteschi in stile Neoclassico.
Fu progettata da Amedeo di Castellamonte su commissione del duca Carlo Emanuele II, che intendeva farne la base per le battute di caccia. Il progetto, di grandioso impatto scenografico comprendeva il palazzo, il parco, i boschi di caccia e l’intero borgo circostante. La composizione è attraversata da una linea prospettica che percorre il borgo e continua all’interno della reggia.
L’idea di creare una reggia nacque probabilmente dall’esempio del Castello di Mirafiori (o di Miraflores), luogo destinato alla moglie del duca Carlo Emanuele I, Caterina Michela d’Asburgo.
A partire dal 1699 prese in mano i progetti l’architetto Michelangelo Garove. I giardini vennero ridisegnati alla francese, come dettato dal gusto del tempo. Successivamente, con il contributo di Juvarra, furono costruite la Galleria Grande, la Cappella di Sant’Uberto, la Citroniera e la Scuderia e la Reggia divenne la massima espressione dei capolavori del Barocco. Benedetto Alfieri diede unità al complesso e realizzò le scuderie e il maneggio, ancora oggi in uso.
Durante l’assedio del 1706 i francesi di Louis d’Aubusson de la Feuillade vi presero dimora, danneggiando molte delle strutture.
Con l’arrivo di Napoleone e la caduta dell’Antico Regime si accentua il degrado della Reggia di Venaria, che viene convertita in caserma. I suoi giardini vengono distrutti per far posto ad una piazza d’armi e le aiuole, le fontane e le sculture sono sostituiti da cannoni e moschetti.
Inizia il degrado. Quando l’esercito napoleonica se ne va, la Reggia viene abbandonata e depredata, perdendo gran parte del suo splendore. Le devastazioni e l’incuria durano fino al 1978.
Tra il 1998 e il 1999 ha inizio il progetto di recupero dell’intero complesso, del Borgo Antico, dei giardini e del parco: è la più grande opera di restauro di un bene culturale mai realizzata in Europa. Con la riapertura al pubblico nel 2007, è tornata a risplendere. Anche i giardini della Reggia in seguito ai lavori di risanamento sono stati restituiti al loro antico splendore.

La Reggia di Venaria Reale è oggi aperta a tutti. Il lungo e profondo restauro ha permesso la formazione di una fiorente industria turistica, basata soprattutto sulle visite culturali e sul loro indotto: pernottamenti, ristorazione e negozi tipici.
Gli esterni con pareti in mattoni rossi e marmo bianco si immergono in magnifici giardini alla francese. Ma è all’interno il vero tesoro: stucchi, dipinti, tappezzerie. Ciò che colpisce è il vuoto, la quasi completa mancanza di arredamento. La suggestione fatta sopratutto da un sapiente gioco di luci ed ombre, stanze enormi dai soffitti altissimi in cui risuona l’eco dei proprio passi.
Durante la visita alla Reggia è possibile, attraversando i sontuosi corridoi, ammirare l’incantevole Sala di Diana, dove la luce che entra dalle enormi vetrate inonda e accende i fregi dorati, gli affreschi e i marmi, le Stanze del Circolo della Regina, tra le poche sale arredate, con divani d’epoca e una bellissima arpa, la solenne Galleria Grande, la Cappella di Sant’Uberto e l’immenso complesso delle Scuderie Juvarriane.
Visti gli interni, ci si può perdere negli splendidi giardini, circondati dai boschi e incorniciati dalle Alpi. Le sale animate dalla vita di corte secondo le installazioni del regista Peter Greenaway, le proiezioni serali sulle facciate della reggia, la visita alla Citroneria e alle scuderie.
Durante l’anno sono in programma mostre, spettacoli, concerti ed eventi ed è possibile riservare la struttura per cerimonie e matrimoni. All’interno sono presenti stucchi e statue preziosissime oltre a 4.000 dipinti di elevato valore.
Di seguito gli orari e i prezzi per le visite. Attenzione, orari e prezzi potrebbero cambiare. Controlla la correttezza dei dati sul sito.
Orari di visita Reggia di Venaria

martedì - venerdì 9:00 – 17:00
sabato, domenica e festivi 9:00 - 18:30
Chiuso il lunedì. Biglietterie e ingressi chiudono 1 ora prima.
Orari di visita Castello della Mandria
martedì - venerdì 10:00 – 16:00
sabato, domenica e festivi 10:00 – 16:30
Chiuso il lunedì. Biglietterie e gli ingressi chiudono 30 minuti prima.
Orari di visita giardini della reggia di Venaria
martedì, domenica e festivi 9:00 - 16:00.
Biglietterie e gli ingressi chiudono 1 ora.
Chiuso il lunedì.
Orari Teatro d’Acqua della Fontana del Cervo
martedì, domenica e festivi: ore 12:00.
domenica e festivi: ore 18:30
Prezzo visita Giardini di Venaria 5 euro. 2 euro dai 6 ai 18 anni e per universitari under 26. 4 euro per gruppi da 12 a 29 persone. Gratis per minori di 6 anni.
Prezzo visita Reggia + Giardini + mostre 20 euro. 8 euro dai 6 ai 18 anni e per universitari under 26. Gratis per minori di 6 anni. 16 euro per gruppi da 12 a 29 persone.
Prezzo visita Reggia + Giardini + Castello della Mandria 20 euro. 8 euro dai 6 ai 18 anni e per universitari under 26. 16 per gruppi da 12 a 29 persone. Gratis per minori di 6 anni e possessori di Torino Piemonte Card.
Prezzo visita Reggia + Scuderia Juvarriana 14 euro. 5 euro dai 6 ai 18 anni e per universitari under 26. 10 euro per gruppi da 12 a 29 persone. Gratis per minori di 6 anni.
Prezzo visita Castello della Mandria 8 euro. 3 euro dai 6 ai 18 anni e per universitari under 26. 6 euro per gruppi da 12 a 29 persone. Gratis per minori di 6 anni.

Visita guidata e app Per scoprire la storia completa di questa dimora potete optare per una Visita Guidata alla Reggia di Venaria, disponibile in italiano, spagnolo, inglese, francese e tedesco. Altrimenti potete scaricare l’applicazione gratuita della reggia che consente una visita guidata interattiva. Puoi scaricare l’app qui.
Cosa vedere nella reggia di Venaria
Di seguito un elenco con una breve descrizione dei tesori più preziosi che fanno parte della reggia e che non puoi assolutamente perdere.
La Corte d’Onore
La visita alla residenza sabauda, con i suoi ottantamila metri quadri di monumentalità seicentesca e settecentesca, inizia con la Corte d’Onore e il meraviglioso Teatro dell’Acqua
Dove prima sorgeva l’ormai perduta Fontana del cervo, è stata costruita una fontana inserita in un’ellisse di 120 metri, teatro di spettacoli di giochi d’acqua, luci e musica classica secondo una cadenza di orari.
Con i suoi 100 ugelli d’acqua con getti che arrivano fino a 12 metri, condotti colorati e giochi di luce, è tra le fontane più suggestive al mondo.
Lo spettacolo del Teatro d’acqua si tiene due volte al giorno, alle 12 e alle 19.
Le sale dei Paggi e delle Arti
Qui vengono ospitate numerose mostre d’arte, come la mostra ‘‘Cavalieri, mamelucchi e samurai’’ con l’esposizione di splendide armature d’epoca di svariati tipi, specialmente italiane, islamiche, indiane, tedesche, giapponesi.
Entrati al piano terra è possibile visitare i locali, ricostruiti evocando fedelmente l’atmosfera di vita della Corte dei Savoia. Al primo piano si ha accesso agli appartamenti reali, la Sala di Diana, in cui sono conservate dieci tele di Jan Miel, alla Galleria Grande, al Rondò Alfieriano, fino alla Cappella di Sant’Umberto.
Galleria Grande
Al piano nobile delle Reggia troviamo la Galleria Grande, erroneamente conosciuta come Galleria di Diana: un lunghissimo corridoio concepito nel ‘600 come collegamento fra la parte residenziale e le scuderie. Con Juvarra e Alfieri la galleria raggiunse l’apice del suo splendore.
Con i suoi 80 metri di lunghezza e 12 di altezza e larghezza è oggi un teatro di luce: grandi finestre ad arco, sormontate da aperture ovali, permettono alla luce di inondare la galleria, creando un ambiente scintillante. Una sala di straordinaria bellezza e magnificenza che si affaccia al giardino di fiori, garantendo una vista impareggiabile.
Il bianco dei marmi delle pareti risalta ancor più la luminosità del corridoio. Solo il pavimento a scacchiera bianco e nero, che sembra protendersi all’infinito, si distingue in questo luogo di grande suggestione, quasi etereo.
Percorrendo la Galleria Grande, accompagnati dalla colonna sonora ideata da Brian Eno, specialmente da soli, ci si trova a passeggiare in uno spazio senza tempo, immerso nella luce e staccato dalla realtà.
La Sala di Diana
Nella Sala di Diana, il salone delle feste seicentesco, alziamo lo sguardo verso la splendida volta: gli affreschi di Jan Miel mettono in scena l’Olimpo di Diana e Giove. Brillano per bellezza gli stucchi, i ritratti e le scene di caccia.
La cappella di Sant’Uberto

Sempre dal genio di Juvarra, la chiesa della reggia: la Cappella di Sant’Uberto, iniziata nel 1716 e ultimata nel 1729, per volere di Vittorio Amedeo II, a ricordo di ciò le parti superiori interne dei portali di accesso sono contrassegnati dalla sigla VA scolpita sul marmo. Dedicata al santo protettore dei cacciatori, sorprende per la sua eleganza monumentale.
Juvarra concepì per la sacra struttura maestose volumetrie disposte intorno ad un impianto a croce greca smussata, con due grandi altari ai lati del transetto e quattro cappelle circolari all’interno e poligonali all’esterno, poste sulle diagonali.
Le numerose fastose decorazioni arricchiscono all’interno i sapienti contrasti di luce rendendo l’ambiente davvero unico.
Il vero protagonista è l’altare maggiore, in marmo e stile barocco, opera di Giovanni Baratta, che si presenta come sospeso, quasi incorniciato dal fascio di luce che da sfondo al tabernacolo retto da angeli marmorei. L’altare si sviluppa in senso verticale collocandosi tra le due colonne centrali della conca realizzata dall’abside. La luce che si irradia dalle alte vetrate retrostanti, evidenzia la forma frastagliata dell’altare e ne moltiplica i toni ed i colori.
Sempre al Baratta, con dell’aiuto del nipote Giovanni Antonio Cybei, si devono le 4 statue dei Dottori della Chiesa, poste nelle nicchie dei pilastri centrali: Sant’Agostino, Sant’Ambrogio, Sant’Atanasio e San Giovanni Crisostomo.
Agli altari laterali si trovano le quattro grandi pale opera di affermati pittori di scuola romana. La cantoria è dello scultore luganese Carlo Giuseppe Plura.
I collegamenti della Cappella con la Reggia, lasciati incompiuti da Juvarra, vennero portati a termine sotto Carlo Emaneuele III da Benedetto Alfieri, cui si deve anche lo scenografico scalone monumentale che sale al piano nobile, dove si trovano le tribune della Cappella: balconate sulle quali si affacciavano i membri della famiglia reale quando assistevano alle celebrazioni liturgiche.
Il trompe l’oeil della cupola
La chiesa, è incastonata tra i palazzi e questo non ha permesso la costruzione della cupola nella zona centrale, la presenza è stata quindi simulata affrescandola come trompe l’oeil all’interno: l’espediente artistico che ridusse drasticamente i costi residui, è forse anche da ricercarsi nel progressivo disinteresse dei Savoia nell’abbellimento della Reggia di Venaria come tenuta di caccia, in quanto questa era diventata ormai démodé a confronto con la più moderna Palazzina di caccia di Stupinigi.
Completamente restaurata in occasione dell’Expo 1961, raramente vi si sono svolte funzioni religiose, in quanto è parte integrante dell’itinerario turistico della Reggia. Nell’autunno del 2019 però ne è stata riaperta la Sacrestia con un rinnovato allestimento che ne esalta la sacralità e la funzione.
L’appartamento della principessa Ludovica
Nell’Appartamento della Principessa Ludovica è ospitata una mostra permanente di tele seicentesche di grandi autori, tra cui Guercino, Guido Reni e Rubens.
Il percorso continua anche negli ambienti sotterranei, in cui sono allestite delle mostre permanenti che ricostruiscono la storia della dinastia dei Savoia, alla Regia Scuderia e infine all’esterno negli eleganti giardini all’italiana.
La Regia Scuderia (Scuderia Juvarriana) e la Citroniera di Filippo Juvarra
Nell’area delle ex scuderie, su una superficie di circa 8000 metri quadrati, l’ambiente espositivo più esteso di tutta l’intera Reggia, è in mostra un Bucintoro - o Barca Sublime - dalle ricche decorazioni dorate: l’unica originale imbarcazione veneziana del Settecento rimasta al mondo, usata per parate sfarzose, feste fluviali e tre matrimoni regali.
Commissionata da Vittorio Amedeo II nel 1729 su modello dell’arca da trasporto dei Dogi di Venezia, dopo 31 giorni di navigazione sul Po, il 2 settembre 1731 la barca raggiunse Torino in tutto il suo splendore. Oggi il Bucintoro è posizionato ad un livello rialzato su un grande specchio che vuole ricordare le acque del Po, su cui pare fluttuare, indifferente allo scorrere del tempo.
Nelle Scuderie Juvarriane sono conservate anche le carrozze utilizzate nell’Ottocento dalla famiglia Savoia.
Tra queste la Berlina dorata di gala, commissionata da Vittorio Emanuele II asceso al trono d’Italia, la Berlina argentata della regina Margherita e alcune carrozze di Umberto I e Vittorio Emanuele III. È inoltre esposta temporaneamente la carrozza di Napoleone.
Qui si trova anche uno dei principali centri di restauro italiani, costituito da una serie di laboratori dedicati alla diagnostica, al restauro e alla conservazione delle opere d’arte: il Centro per la conservazione e il restauro “La Venaria Reale”.
I Giardini della Reggia di Venaria

Una volta esplorati gli interni è la volta dei giardini, circondati dai boschi del Parco della Mandria e dalla catena montuosa delle Alpi.
Parte della rete dei Grandi Giardini Italiani, nel 2019 i giardini della Venaria si sono aggiudicati la XVII edizione del concorso Il Parco Più Bello d’Italia per la categoria parchi pubblici. Incorniciati da un’incomparabile visione all’infinito che non hanno riscontri analoghi in Italia per la magnificenza delle prospettive e la vastità del panorama naturale.
Fino a qualche decennio fa la loro bellezza sembrava irrimediabilmente perduta. I soldati napoleonici ne distrussero completamente intere parti, come il maestoso giardino all’italiana diviso in tre terrazze.
L’intero complesso venne trasformato in caserma. Con la Restaurazione, questa destinazione fu mantenuta: divenendo il centro nevralgico della Cavalleria sabauda e ospitando, tra l’altro, una scuola di equitazione militare di prestigio europeo - in seno alla quale maturarono innovativi metodi di equitazione, di combattimento - e un allevamento di stalloni.
Del parco rimasero solo i disegni dell’epoca, che si rivelarono utilissimi per la ricostruzione che, dopo un lunghissimo restauro, li ha riportati alla loro maestosità di un tempo.
Un lungo canale d’acqua - l’allea d’Ercole - che può essere navigato su una gondola veneziana del 1731, divide in Parco Alto e Parco Basso.
La parte bassa del parco, che può essere visitata a bordo di un trenino, si trova il Potager Royal, un orto con frutteto di dieci ettari, i cui prodotti sono venduti nei vari punti di ristoro, ed è delimitato dalle strutture seicentesche della fontana d’Ercole e del Tempio di Diana.
Nel Parco alto, invece, si può passeggiare nel Giardino a fiori - con la prospettiva che si perde sul profilo del Grand Paradiso all’orizzonte -, nel Roseto e nel Gran Parterre che mette in rilievo la maestosità delle scuderie di Juvarra.
Il Giardino a Fiori
Nel Seicento era il giardino di rappresentanza su cui si apriva la Reggia di Diana, con verde e fiori disposti in partizioni ai lati dell’asse rettore. Delimitato ad ovest da una loggia semicircolare che, secondo la descrizione di Amedeo di Castellamonte del 1672, aveva lo scopo di attenuare la sproporzione tra larghezza e lunghezza e, come una quinta teatrale, di svelare il paesaggio attraverso il varco centrale.
Seguiva un belvedere al di sopra della Fontana d’Ercole.
Nei primi anni del Settecento, con gli sviluppi dei giardini in prossimità della Galleria Grande, questo settore ebbe forse temporaneamente usi più privati, come i giochi del principe.
Il progetto di inizio Settecento, caratterizzato da maggiore apertura spaziale, comportò l’eliminazione della loggia.
Nell’attuale realizzazione, spazi con bordure e fiori sono articolati in una maglia quadrata e una composizione circolare centrale. Nella scelta delle piante perenni e annuali, che producono tre cicli di fioritura l’anno, si è tenuto conto delle varietà coltivate in Piemonte e delle diverse specie floreali rappresentate, con specifici significati simbolici, in pitture e stucchi all’interno della Reggia.
Il Tempio di Diana
Il Tempio di Diana era meta della passeggiata seicentesca lungo l’Allea Centrale.
In mezzo a un lago, in cima ad uno scoglio di pietre, al cui interno due canali incrociati consentivano il passaggio delle barche, sorgeva il tempio a pianta circolare impreziosito da marmi, colonne, sculture e decorazioni murarie di conchiglie e madreperla e coperto da una cupola
All’interno da una fontana con le statue di Diana e di otto ninfe fuoriusciva un rivolo acqua che, attraversando la bocca di diversi mostri, si rompeva tra le punte dello scoglio dal quale scendeva attraverso delle scale, creando stupefacenti effetti ottici e sonori.
Il Tempio di Diana, che segnava la fine dell’Allea, venne eliminato per il cambiamento del gusto e la ricerca di una prospettiva infinita. Le antiche fondazioni sono state riportate alla luce con scavo archeologico ed è oggi presente un invaso circolare dove l’acqua circonda i muri dell’antico basamento.
Complesso Monumentale della Fontana dell’Ercole

La monumentale struttura della Fontana dell’Ercole, realizzata tra 1669 e 1672 su progetto di Amedeo di Castellamonte, raccordava il giardino alto con l’Allea al livello inferiore.
Muri articolati in nicchie e grotte, con sculture in marmo, con superfici a mosaico di conchiglie, coralli, cristalli e tufo, sorreggendo un camminamento e due scale curvilinee, contornavano una grande vasca. Qui l’acqua cadeva da varie fonti, con molti giochi ed effetti sonori.
Al centro, tra scalinate e padiglioni, ninfei e grotte, giochi d’acqua e un grandioso apparato decorativo ricco di rimandi allegorici e allusioni mitologiche, dominava la statua dell’Ercole Colosso nell’atto di uccidere il mitico mostro dell’Idra di Lerna realizzata da Bernardo Falconi e alta più di 3 metri, stretto fra le caviglie. Dalle teste dell’Idra zampillavano i getti d’acqua tra altre sculture che rappresentavano le fatiche di Ercole e figure mitiche.
La Fontana d’Ercole è «un luogo strano» afferma, Luisa Papotti, Soprintendente Archeologia, perché non è stato distrutto per il corso della storia ma per scelta progettuale.
Anche se l’assedio francese di Torino del 1706 procurò seri danni alla Reggia e alle strutture della fontana e causò la perdita di numerose sculture e decorazioni, non fu questo a decretare la distruzione della monumentale fontana, quanto il mutamento dei gusti.
Declassata nel 1716 la reggia a fortino militare per l’istruzione e i giochi del principe ereditario, sorte simile tocca alla fontana, che, nel 1726 che, con l’affermarsi di un nuovo modo di interpretare il tema della “villa di delizie” e l’affermarsi il gusto del giardino settecentesco secondo i progetti di Michelangelo Garove, veniva definitivamente abbandonata.
La demolizione è attuata in più fasi a partire dal 1729: marmi di scalinate e balaustre vengono divelti per essere riutilizzati nel progetto dei giardini, ulteriormente ingranditi da Juvarra. I pezzi più preziosi sono donati a nobili famiglie piemontesi, come i telamoni ora al Castello di Govone.
Nel 1740 inizia lo smantellamento metodico delle sculture e il recupero dei materiali metallici, in una sistematica dispersione delle sculture che è continuata nei decenni successivi. Nel 1751, recuperati tutti i materiali utili all’ampliamento della reggia ideato da Alfieri, viene sancita la totale demolizione delle murature superstiti e l’interramento dell’intera struttura.
La demolizione ha tolto riparo alla maggior parte degli apparati decorativi della fontana, privandola delle volte originarie e di moltissime opere marmoree.
Della struttura e decorazione scultorea della Fontana d’Ercole rimase poco: la scala a collo d’oca era intuibile unicamente nella parte ovest, dove erano sopravvissuti solo alcuni gradini dissestati. Nella stessa situazione alcuni resti di decorazione in materiale lapideo naturale di cui è difficile individuarne la funzione originaria e la corretta collocazione. La pavimentazione originaria in cotto era per buona parte mancante e dissestata.
La storia della Fontana dell’Ercole poteva concludersi qui, con i pochi resti dissestati ma originali e visitabili.
Tra il 2003 e il 2005 invece degli scavi archeologici portano al rinvenimento del ninfeo. Le strutture ed i materiali con lo scavo passavano da una situazione di relativa stabilità termo-igrometrica protetti dalla terra a uno stato di completa esposizione agli agenti atmosferici e al sole, iniziano ad andare incontro a un repentino degrado.
Il ninfeo si trova addossato ad un terrapieno che favorisce un continuo afflusso delle acque meteoriche e di irrigazione dei giardini alle murature addossate al parco alto, comportando uno stato di continua imbibizione dei materiali, con conseguente formazione di ghiaccio nei mesi invernali, seguita da fenomeni di evaporazione violenta nelle zone colpite dal sole durante il periodo estivo.
Sole, gelo e disgelo, pioggia battente, neve, umidità
Le vicende della statua dell’Ercole
Oggi al centro della fontana attuale domina nuovamente la statua dell’Hercole Colosso, concessa in comodato al Consorzio La Venaria dalla Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama.
Restaurata grazie al prezioso intervento della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, la statua è tornata alla Reggia di Venaria dopo lunghe e complesse vicissitudini che l’hanno portata per molto tempo alla Villa del Capriglio e poi nei magazzini di Palazzo Madama, fino all’importante recupero che la restituisce al suo luogo d’origine.
La statua si trovava ancora a Venaria nel 1776, non più però presso la Fontana, ormai inesistente, ma in locali di ricovero.
Nel corso delle vicende relative alla cosiddetta “diaspora” dei beni marmorei della Reggia, fu destinata dai conti Melina di Capriglio, nobile famiglia con importanti incarichi a corte, alla loro villa nella collina torinese appunto, per poi essere trasferita a Palazzo Madama nei primi anni Sessanta.
Ricollocata al centro della nuova vasca ricostruita e dei padiglioni contemporanei. Interrati i resti del complesso ninfeo originario, ne è stata realizzata una versione moderna sotto nuove volte a centine lignee, con le pareti decorate con conchiglie e pietre colorate, statue e giochi d’acqua.
Il restauro, tra critica e polemiche
Priva dei suoi originari attributi in bronzo, tra cui la celebre clava, la statua è oggi innalzata su un piedistallo hi-tech. Tante sono le parti mancanti, tra cui l’idra sconfitta da Ercole, dalle cui fauci zampillava l’acqua. Ora gli zampilli fuoriescono dal piedistallo con un effetto ben diverso. Intorno sono stati riposizionati i telamoni di Govone e gli elementi perduti con sostituti in resina.
Da ogni parte si sono levate critiche e polemiche contro il restauro. Sui social tanti hanno gridato al falso storico, evocando il castello del Boss delle Cerimonie, Las Vegas e Disneyland.
L’intervento invero più che un restauro è stata una vera e propria ricostruzione.
Centro Storico di Venaria

Progettato nel Seicento da Amedeo di Castellamonte, come scenografia che, sin dalla pianta, preparava all’ingresso nella reggia mettendola in risalto a livello prospettico, e congiungeva idealmente il borgo produttivo, ricco di botteghe artigiane disposte sotto i portici, con la dimora nobiliare.
L’impianto di Venaria disegnato da Castellamonte, rappresenta un unicum, nel complesso di Borgo, Reggia e Giardini, posti lungo un asse di circa due kilometri.
La pianta del borgo doveva svilupparsi disegnando un Collare dell’Annunziata, massima onorificenza della Casa Savoia, con la Piazza dell’Annunziata posta in corrispondenza del medaglione.
Nei numerosi locali e caffè che si affacciano alla via Maestra (oggi via Andrea Mensa) - che conduce alla residenza sabauda attraverso case antiche fino ai portici della piazza dell’Annunziata - è possibile gustare le varie specialità della cucina locale, come il vino rosso Lessona e i rinomati canestrelli.

Dieci pannelli multimediali inseriti lungo il Centro Storico di Venaria illustrano le tappe storiche, i personaggi principali, i luoghi architettonici e le vicende più emblematiche del Borgo.
L’inserimento di 10 pannelli turistici con testi anche in lingua straniera, immagini e possibilità di visualizzazione di video, consente di conoscere la storia ed i personaggi principali della Venaria percorrendone le strade e gli scorci più caratteristici.
Già Amedeo di Castellamonte, l’architetto che progettò e realizzò La Venaria Reale per conto del duca Carlo Emanuele II, nel suo libro del 1674 dedicato alla descrizione della Reggia immaginò di accompagnare il lettore nelle meraviglie della Venaria incominciando proprio dal Borgo, l’attuale Centro Storico cittadino.
L’elenco delle scenografie architettoniche che documentava (la Via Maestra, la piazza dell’Annunziata, la Chiesa della Natività di Maria Vergine, le piazze ad esedra) con le loro fantastiche armonie, autentico e degno preludio alla magnificenza del Palazzo sabaudo, sono in gran parte ancor oggi visibili e testimoniano un caso urbanistico pressoché unico: quello di una città ideata in simbiosi con la sua Reggia dal punto di vista architettonico, economico e sociale.
Una passeggiata da non perdere. Un salto indietro nel tempo tra strade e caffè curatissimi.
Piazza dell’Annunziata

La piazza, la cui forma particolare ricalca il medaglione centrale del Collare dell’Annunziata, è un elegante esempio di architettura barocca, al centro sono poste due alte colonne sovrastate rispettivamente dalle statue dell’Annunziata e dall’Angelo Annunziante. Nella piazza è possibile ammirare lo stemma civico con Il grancollare dell’Ordine Supremo della santissima Annunziata e la Corona Sabauda Reale.
Sul lato settentrionale vi è la chiesa parrocchiale della Natività di Maria Vergine alla quale, secondo il progetto originale, doveva contrapporsi una seconda chiesa simmetrica sul lato opposto della piazza. La chiesa fu edificata a partire dal 1664 e ristrutturata da Benedetto Alfieri intorno alla metà del XVIII secolo.

L’idea delle “chiese gemelle” venne mantenuta attraverso la costruzione dell’Ospedale civile che dà sulla piazza attraverso una facciata simmetrica a quella della parrocchiale. Oggi l’ospedale è abbandonato.

Villaggio SNIA

Per tutto il XX secolo l’economia di Venaria fu basata principalmente su attività industriali, soprattutto metalmeccanica e chimica delle materie plastiche.
Nel luglio del 1917 Riccardo Gualino, noto negli ambienti finanziari piemontesi, fonda a Torino, insieme a Giovanni Agnelli, la Società di Navigazione Italo Americana (SNIA), con capitale sociale di 5.000.000 di lire, che ha come scopo principale il trasporto di combustibile dagli Stati Uniti all’Italia.
L’attività subisce una flessione alla fine del conflitto mondiale. Nel 1919 muta il nome in Società di Navigazione Industria e Commercio, in relazione al nuovo interessamento per la produzione e il commercio di fibre tessili sintetiche che, insieme al “tradizionale” ramo marittimo in cui l’azienda continua ad operare, costituisce una nuova ed importante attività.
La massiccia immigrazione dovuta soprattutto all’insediamento produttivo SNIA trasforma in breve tempo l’economia cittadina da rurale a industriale.
Il fenomeno immigratorio, che nel ventennio 1920-1940, ha portato la popolazione di Venaria da 6 mila a oltre 25 mila abitanti, genera forti problemi: l’organizzazione sociale non è in grado di offrire i servizi indispensabili, primo tra tutti quello della casa. Negli anni venti si procede quindi a costruire un gran numero di alloggi di edilizia popolare per i lavoratori.
Per primo, nasce ad inizio ‘900, lungo l’asse degli attuali viale Buridani e corso Giacomo Matteotti, il villaggio delle case operaie con edifici a pianta rettangolare elevati su tre e quattro piani, chiamate Case Snia. Oggi villaggio museo e importante reperto di archeologia industriale e contemporanea
I complessi residenziali SNIA (quello di Venaria come gli altri che sorgono nei pressi degli altri impianti) ospitavano in ordine gerarchico tutti i dipendenti. Nel primo caseggiato abitavano le autorità, nel secondo trovano spazio i negozi e i sorveglianti, nel terzo i capisquadra, i capi reparto e gli autisti e nei rimanenti gli operai e le loro famiglie.
Le abitazioni sorgevano nel totale isolamento. La scelta non era occasionale: la costruzione del villaggio nell’estrema periferia ribadisce il concetto di separazione, di estraneità e di divisione della fabbrica e delle sue maestranze dal resto del proletariato e delle industrie cittadine.

Una separazione che vuole portare alla creazione di una manodopera aristocratica che lontano dalla città, dagli altri insediamenti produttivi e, soprattutto, dagli altri insediamenti operai, non rischi di essere “contagiata” garantendo alla Snia “un lavoro in piena concordia con intenti fervidi e disciplinati”.
Sono anni difficili con una forte disoccupazione lavorativa. Anche le donne rinunciano – in un momento storico in cui si dedicano prevalentemente all’attività domestica – ad accudire i figli, per affrontare l’esigenza famigliare di uno stipendio in più. A ciò si aggiunge elevato incremento del lavoro minorile a scapito della frequenza scolastica obbligatoria.
Tanti sono reclutati direttamente nei loro paesi d’origine. Una buona percentuale della forza lavoro proviene dal Veneto, importante bacino di reclutamento della manodopera. La SNIA andava in Veneto, all’epoca gravato da una forte disoccupazione, a reclutare manodopera. Qui prelevava i lavoratori e li portava a Torino.
Chi non aveva le possibilità di prendere casa poteva andare nel dormitorio dentro la SNIA e usufruire anche della mensa. “Così, volenti o nolenti, siamo stati obbligati ad accettare questa condizione, fatta di tanto lavoro nocivo” Racconta un anziano lavoratore della SNIA.
Una manodopera che si adatta a condizioni di lavoro molto pesanti, specialmente dal punto di vista della salute, vista l’elevata presenza di sostanze chimiche nel ciclo di lavorazione.
Le condizioni di indigenza di molte famiglie immigrate, in genere assai numerose, generano forte disagio e povertà.
La forte presenza veneta nella fabbrica caratterizza anche la composizione demografica delle case Snia, dove la componente veneta è da sempre maggioritaria. Ancora negli anni ‘50 le famiglie non venete erano appena 5.

Parco della mandria
L’altra grande attrattiva locale è il Parco naturale La Mandria, un’area cintata di circa tremila ettari che lambisce, a nord-ovest, Torino e Venaria Reale,
Il parco della Mandria conserva al suo interno uno degli ultimi lembi di foresta planiziale ancora esistenti, tutela diverse specie di animali allo stato brado tra cui cervi, caprioli, daini, cinghiali e volpi, tassi, lepri, scoiattoli, nutrie, gufi, civette, allocchi - per cui sono predisposti punti di avvistamento - ed è un importante luogo di nidificazione degli uccelli di passo.
Il re Vittorio Amedeo II creò qui un allevamento di cavalli per le scuderie reali da cui deriva il nome di “La Mandria”, mentre Vittorio Emanuele II, volle che qui venissero costruiti il Borgo Castello e altri edifici per viverci, pare, con la sua moglie morganatica, Rosa Vercellana.
Alla morte di Vittorio Emanuele II la tenuta passò ai marchesi Medici del Vascello e, nel corso del periodo successivo, porzioni di terreno vennero vendute per la costruzione di varie residenze e perfino di un campo da golf, finché, dal 1976, divenne proprietà della Regione Piemonte che istituì nel 1978 il Parco Regionale della Mandria.
È tra i sei parchi piemontesi che hanno costituito il primo nucleo di parchi regionali istituiti in Italia, unico ad appartenere in gran parte al patrimonio della Regione Piemonte,
Oggi il parco è molto frequentato da amanti dei pic-nic, della mountain bike, turisti e torinesi che vogliono trascorrere una giornata all’aperto. Infatti il parco è ottimo per passeggiate a piedi e in bicicletta.
La Mandria di Venaria è aperta tutti i giorni, ma, a seconda dei periodi, alcune aree possono essere chiuse per non disturbare la riproduzione degli animali.
È possibile esplorarlo in autonomia, partecipare a visite guidate o sul trenino. Tra gli eventi organizzati non perderte la Notte Sotto le Stelle e il Trenino Notturno. Per conoscere tutte le iniziative consulta il sito ufficiale.
La maggior parte dei sentieri sono ampi e sterrati, alcuni sono invece stretti e fangosi.
All’interno del Parco della Mandria sono presenti diverse fontane, aree con i tavoli e contenitori per la raccolta differenziata, zone ombreggiate e strutture per mangiare e per dormire, riconoscibili con il logo della Mandria e bagni pubblici.
Tra gli ingressi consigliamo l’ingresso Ponte Verde, presso il quale è presente un parcheggio gratuito e un info point dove prendere la mappa del parco.
Attenzione! Nel parco della Mandria non sono ammessi cani per evitare che possano predare la fauna selvatica che vive nel parco.
Il Castello della Mandria
All’interno del parco della Mandria, a 1000 metri dalla Reggia, c’è il Castello della Mandria, progettato all’interno da Domenico Ferri e all’esterno da Barnaba Panizza.
Residenza sabauda a partire dagli anni ‘60 dell’Ottocento, quando Vittorio Emanuele II decise di stabilirsi qui, eleggendola a sua dimora preferita.
Le oltre 20 sale, aperte al pubblico, mostrano al visitatore tutto il fascino di un grande protagonista del Risorgimento italiano che condivise parte della sua vita privata, proprio al Castello della Mandria, con la moglie morganatica Rosa Vercellana (detta la Bela Rosin) nominata contessa di Mirafiori e Fontanafredda.
Gli Appartamenti Reali sono pervenuti ad oggi completamente arredati dai preziosi manufatti, dalle opere d’arte, dai tessuti, dagli arredi e dalle suppellettili delle antiche collezioni sabaude.
Rovine del Castellaccio di Rubbianetta
Sulla collina di Rubbianetta, dove un tempo sorgeva il piccolo borgo di Rubbianetta - oggi scomparso - si erge solitario quello che resta dell’antico castello medievale appartenente al Viscontato di Baratonia.
La struttura fortificata, avamposto militare per il controllo del torinese e dei valichi montani, con il tempo assunse la funzione di ricetto per il borgo rurale sorto nei pressi dell’antica chiesa di San Giuliano.
Le prime testimonianze scritte della presenza di un fortino in questa zona sono del 1090. Dalla seconda metà del Duecento, con la spartizione del territorio tra i Savoia e gli Acaja cessa la sua funzione difensiva. Nel 1264 il preposto della cattedrale di Torino vende a Giacomo di Baratonia metà del castello con i connessi diritti signorili per 125 lire di Vienna.
La storia della famiglia dei Visconti di Baratonia risale al Sacro Romano Impero ed è legata alla figura della contessa Adelaide, reggente della Marca di Torino, e a partire dal 1300, alla famiglia Harcourt.
Nel 1343 Giacomo d’Acaia investì del feudo di Druento e Rubbianetta i Provana di Carignano.
I materiali utilizzati sono tutti poveri e facilmente reperibili in zona: pietre di fiume e mattoni in creta legati a malta, mentre le parti andate distrutte dovevano essere in legno, materiale troppo delicato e deperibile per conservarsi fino ad oggi.
Il poco che resta del castello permette di comprendere la composizione della struttura e di individuarne alcune parti: porzioni delle cinta murarie e una torre qudrilatera in pietre e laterizi che doveva essere molto più alta, come farebbero supporre le volte a crociera che si intravedono. La torre doveva avere almeno altri due piani oltre quello ancora in piedi, così da permettere una visuale completa dell’intera vallata.
L’ingresso al Castellaccio - come viene chiamato ancora oggi il castello di Rubbianetta - si riconosce ancora sulle pendici meridionali della collina: per raggiungere il portone principale era necessario girare tutt’intorno alle mura, sotto tiro delle feritoie per gli arcieri.
I resti sono fruibili con visite guidate a cura dell’Ente Parco. L’ingresso per il pubblico da Venaria è dal Ponte Verde (viale Carlo Emanuele II, 256).
La Chiesa di San Giuliano
Ai piedi della collinetta su cui permangono i ruderi del Castellaccio sorge la piccola chiesa di San Giuliano.
Edificata intorno al 1263 in stile architettonico gotico piemontese di S. Antonio di Ranverso e di S. Pietro di Pianezza. la cappella benedettina dedicata a San Giuliano è legata all’abbazia benedettina di san Giacomo di Stura.
Ha subìto trasformazioni ed ampliamenti a partire dalla metà del secolo tredicesimo ed è stata ricostruita nel XV secolo. La facciata è di epoca seicentesca. Nel 1489 fu elevata al rango di parrocchia.
Nel 1493 rricchita da un ciclo di affreschi interni firmati da Giovanni Marcheto molto ben conservati e da poco restaurati, che sostituiscono dipinti precedenti, forse cinquecenteschi. Raffigurano San Sebastiano, Sant’Antonio, San Francesco, Sant’Anna, Sant’Antonio Abate, il Beato Antonio Neirotti di Rivoli, San Pietro, San Giovanni Battista, San Giacomo Maggiore, San Grato.
La trave lignea porta un crocifisso dipinto su tavola di fattura bizantina, superstite di un trittico ligneo di cui le parti laterali sono state trafugate. Notevole infine è un grandioso crocefisso in legno dipinto di fine XV secolo, riferibile forse alla scuola Jaqueriana. Di norma chiusa al pubblico, la chiesa viene aperta su prenotazione per visite guidate e durante la festa di san Giuliano l’ultima domenica di agosto.
Il Castello dei Laghi
Nella zona centrale del Parco, in strada Bottione, si trovano tre fiabeschi laghi, voluti dal sovrano per scopi venatori, oggi rifugio per la fauna acquatica del Parco.
Al centro di una penisola che si protrae nel Lago Grande, si trova il Castello dei Laghi, dalla particolare forma ad Y e il fronte parzialmente nascosto, edificato intorno al 1860 per volere del re Vittorio Emanuele II, come reposoir di caccia, per agevolare, insieme alla Bizzarria, la caccia di specie migratorie.
L’architettura neo-medievale, che si rifà ai castelli francesi, è frutto dell’eclettismo della seconda metà del XIX secolo. Il suo valore più che per l’architettura è dato dalla fiabesca ambientazione e dal punto di vista storico.
Cento anni più tardi dalla sua realizzazione venne acquistato dalla famiglia Bonomi Bolchini con la vendita promossa dal marchese Luigi Medici del Vascello. Il nucleo centrale originario, caratterizzato da quattro torri di cui due merlate, venne ampliato con la costruzione delle due ali sporgenti rispetto al corpo centrale, dall’architetto Renzo Mongiardino.
Il giardino, che si presenta con prati all’inglese e zone boschive “disegnate”, fu ideato dal paesaggista Pietro Porcinai.
Con l’istituzione del parco, che vieta l’attività venatoria, i Bonomi Bolchini persero interesse per la proprietà e nel 1995 la vendettero alla Regione Piemonte
Oggi, in attesa di interventi di restauro, sia l’edificio che l’ambiente circostante versano in stato di abbandono e degrado, per la totale assenza di manutenzione.
La magnifica scenografia ha reso il Castello dei Laghi di Venaria la location ideale per produzioni cinematografiche. Nel 2012 è stata il set per l’opera di Gioachino Rossini Cenerentola. Nel 2019 è stata la location principale di The Nest, Il Nido, film horror italiano diretto da Roberto De Feo (che noi abbiamo visto al cinema alla data di uscita e che vi consigliamo, non tanto per la cadenza lenta del racconto, quanto per il colpo di scena finale).
Aeroporto militare Mario Santi
Nel 1909 venne costruito all’interno dell’attuale parco che circonda la reggia, il più antico scalo militare italiano.
intitolato alla memoria di Mario Santi e gestito dall’Esercito Italiano è dotato di due piste in erba lunghe 600 e larga 30 m la principale, e 400 m la secondaria. .
Utilizzando i terreni demaniali della vicina Reggia vennero messi a punto i velivoli disegnati dal pioniere dell’aviazione Aristide Faccioli che nel 1909 fece volare il triplano Faccioli n. 1, primo aereo di progettazione e costruzione interamente italiani, pilotato in quell’occasione dal figlio Mario.
Il campo di Venaria condivideva le attività pionieristiche di aviazione con il vicino Aeroporto di Torino-Mirafiori, inaugurato ufficialmente nel 1911, in origine un ippodromo, sede anch’esso di hangar-officina di Faccioli, dove si ritiene vi fu il primo decollo del Faccioli n.1.
Al Faccioli n.1, andato distrutto dopo i primi voli, seguirono altri velivoli che utilizzarono il campo di Venaria, ormai vero e proprio aeroporto militare. I Faccioli si trasferirono nelle aree demaniali di Cameri per continuare le sperimentazioni che si conclusero tragicamente con la morte di Mario in un incidente di volo nel 1915, cui seguì quattro anni dopo il suicidio del padre Artistide.
Durante la prima guerra mondiale il Regio Esercito utilizzò il campo per le attività della scuola di pilotaggio che insieme all’Aeroporto di Mirafiori fino alla fine delle ostilità nel 1918 fece conseguire il brevetto di pilotaggio a 350 aviatori militari, tra cui i più celebri assi del conflitto.
Una Sezione Difesa nacque nell’aprile 1918 dotata di Savoia-Pomilio SP.2.
Dalla fine del 1920 era sede della 39ª Squadriglia fino all’estate 1921. Nel 1923 vi rinacque il 13º Gruppo caccia della Regia Aeronautica. Al 10 giugno 1940 ospitava la 31ª Squadriglia Ricognizione, la 39ª Squadriglia Ricognizione (IMAM Ro.37) e la 40ª Squadriglia Ricognizione (IMAM Ro.37) dell’Aviazione Ausiliaria per l’Esercito. Nel giugno 1942 vi operava la 123ª Squadriglia del 73º Gruppo Osservazione Aerea sui Caproni Ca.313. Ai primi di settembre 1943 vi operava il 71º Gruppo Volo del 20º Stormo da Osservazione Aerea.
Attualmente, l’aeroporto è sede del 34º Gruppo Squadroni AVES “Toro” che ha qui la sua base di elicotteri medi Agusta Bell 205, i principali elicotteri militari usati dagli americani nella guerra in Vietnam e quelli da ricognizione Agusta Bell 206.
Fonte: Wikipedia
Piste Ciclabili di Venaria
Venaria Reale offre ai suoi visitatori una rete ciclabile estesissima, con piste e itinerari verso il Parco naturale La Mandria e le valli di Lanzo. Sono le ciclo pedonali della mandria, quella che corre parallela sul lato orientale del Parco costeggiando il fiume Stura (la Corona Verde) e quelle del Parco Chico Mendes.
Pista ciclabile nel Parco Chico Mendes
Il Parco intitolato a Chico Mendes è un’area verde protetta che si estende per circa 100 ettari, confinando con i territori di Torino e Venaria e con il fiume Stura di Lanzo, ed è attraversato da percorsi pedonali e ciclabili, che portano a Caselle Torinese, Borgaro Torinese e verso le Valli di Lanzo.
Presenta lunghi e numerosi percorsi ciclopedonali, che si ramificano verso Caselle Torinese e Valli di Lanzo. È attraversato dal fiume Stura di Lanzo nei territori comunali di Borgaro Torinese e Venaria Reale. Sulle sponde, sono presenti spiagge con grandi pietre, ideali per prendere il sole e rilassarsi. La balneazione è però vietata per la pericolosità delle acque.
Nella parte del Parco Chico Mendes di Borgaro, su un’area di 7000 metri quadri, è allestita una mostra a tema giurassico: il Dinosaurs Park. In questo bioparco – in cui è possibile passeggiare tra i dinosauri delle diverse ere - si svolgono diverse attività finalizzate all’educazione ambientale.
Il Viadotto Stura della SP501 con la sua pista ciclabile che costeggia la strada, permette di raggiungere il Parco La Mandria dal Parco Chico Mendez di Borgaro.
Tappa a Borgaro
Percorrendo la ciclabile del Parco Chico Mendes e la Corona Verde toccheremo il comune di Borgaro.
Nel 774 d.C., con l’arrivo dei Franchi di Carlo Magno, al territorio di questo comune vengono annessi Caselle e Altessano Inferiore (ora Venaria Reale). Nel 1600 il feudo di Borgaro era suddiviso fra tre famiglie: i Birago di Vische, gli Havard di Senantes ed i Provana di Druent.
Nel 1630 e 1660 Borgaro è duramente colpito dalle epidemie di peste.
Castello di Santa Cristina

Il principale luogo di interesse di Borgaro, raggiungibile in bici attraverso una breve deviazione (segnata nella mappa ad inizio della guida) è il Castello di Santa Cristina realizzato nel XVII° secolo per il nobile francese François Havard de Sènantes, trasferitosi in Piemonte al servizio dei Savoia, con il suo Lago.
La presenza di questo castello si deve all’arrivo in Piemonte di Francois Havard de Sénantes, Conte di Ligneville, uno dei tanti nobili francesi venuti a cercare fortuna al servizio sabaudo con le truppe al seguito di Madama Reale Cristina di Francia.
Durante la ascesa sociale, con la necessità di radicare sul territorio il proprio potere, a partire dal 1644, sènantes, acquista ed accorpare diverse cascine esistenti, arrivando a possedere, verso la fine del seicento, una tenuta, di circa 260 ettari.
L’edificio era pregevolmente affrescato; cariatidi, medaglioni, putti caratteristici del tardo barocco e rappresentazioni mitologiche, si presume realizzati nel periodo che va tra l’infeudazione di Borgaro del 1653 e l’investitura a Marchese del 1658 di Sénantes.
Intanto anche i Birago espandono e consolidano il proprio potere sul territorio. Nel 1746 il luogo divenne feudo dei Birago, che presero il titolo di “Conti di Borgaro”. Nel XIX secolo re Carlo Alberto di Savoia separò nuovamente Altessano da Borgaro.
Oggi il Castello di Santa Cristina è di proprietà privata, sede di un’azienda agricola, pertanto visibile solo dall’esterno. Posto sotto vincolo monumentale e all’attenzione dell’amministrazione comunale che ha studio la fattibilità della sua acquisizione al patrimonio comunale.
Il realizzarsi di tale ipotesi potrà consentire interventi di recupero per restituirla ai Borgaresi, e non solo, nella sua imponenza e pregio architettonico. (dal sito del comune di Borgaro Torinese).
Pista Ciclabile Corona Verde

Dalla Corona Verde pre parco mandria alla Corona Verde Stura una rete di percorsi ciclo pedonali costeggia il fiume Stura di Lanzo. La breve distanza rispetto ai capoluoghi, la connessione diretta con il Parco Mandria, il dislivello minimo e una serie di parcheggi un po ovunque lungo il percorso rendono questo percorso ideale per amanti della mountain bike e del trekking.
Corona verde dello Stura di Lanzo
Le risorgive
Percorrendo la ciclo-pedonale Corona Verde dello Stura di Lanzo incontriamo, sulla riva destra del fiume, all’altezza dei Comuni di Grange di Nole e di Villanova, una vasta zona umida, alimentata da sorgenti: è ciò che rimane dell’antico bosco planiziale ripariale che un tempo affiancava il corso del fiume.

Le risorgenze di acqua limpida e pulita lungo gli alvei abbandonati del torrente conservano interessanti ecosistemi, caratterizzati da piante palustri. E’ notevole la presenza di Matteuccia struthiopteris, una rarissima varietà di felce, il cui nome deriva dalle foglie, che richiamano la figura delle piume dello struzzo.
Le risorgive, costituiscono inoltre l’habitat ideale per diverse specie di anfibi e rettili e pesci, tra i quali la rarissima lampreda padana Lethenteron zanandreai oltre che per il raro gambero d’acqua dolce.
Il letto del torrente e le sue sponde sono frequentati da varie specie di uccelli stanziali e migratori, tra cui germani reali, aironi, garzetta, tuffetto, folaga, svasso maggiore, falco pescatore, poiana, sparviere e oca selvatica.

Oasi Naturalistica I Gorèt
In quest area vi è l’Oasi Naturalistica I Goret, area naturale protetta nata dal progetto di recupero di una cava dismessa, attraverso tecniche di ingegneria naturalistica, intrapreso a partire dal 1986.
L’opera di riqualificazione ha consentito di ricreare habitat ricchi di biodiversità in cui le aree risorgive alimentano laghetti, stagni e aree umide fra loro comunicanti. Il paesaggio è quello tipico dei greti dei torrenti della pianura piemontese.
L’opera di riqualificazione ha consentito di ricreare habitat ricchi di biodiversità in cui le aree risorgive alimentano laghetti, stagni e aree umide fra loro comunicanti. Il paesaggio è quello tipico dei greti dei torrenti della pianura piemontese.
Gorèt in dialetto locale indica i boschi ripariali del torrente Stura. Le gure sono i salici che crescono spontaneamente lungo queste rive, da cui venivano ricavati i materiali per fare i cesti e legare le piante di vite ai filari e le pannocchie di mais alle travà delle case per l’essiccazione. Il bosco ben curato offriva funghi, fiori e frutti del sottobosco.
Il progressivo abbassamento dell’alveo dello Stura, le opere di escavazione sulle sponde, l’abbandono colturale e i conseguenti e ripetuti incendi boschivi contribuirono a degradare l’ambiente ripariale precludendone la fruizione.
L’opera di recupero ambientale ha consentito di ricreare habitat ricchi di biodiversità. Lungo le sponde è stato ricostituita la vegetazione ripariale e igrofila completata dal bosco di pianura.
Negli spazi riconquistati dalla natura si è creato l’habitat ideale per la nidificazione e il ripopolamento dell’avifauna degli ambienti umidi: è frequente oggi incontrare il germano reale, la gallinella d’acqua, il martin pescatore, il tuffetto e gli aironi cenerini.
Negli anni l’Oasi i Gorèt - laboratorio naturale per l’attività didattica all’aperto, a disposizione di chiunque voglia approfondire la conoscenza del paesaggio fluviale - è diventata un punto di riferimento per gli escursionisti, gli sportivi e gli appassionati di fotografia naturalistica.
Sito Paleontologico della foresta Fossile dello Stura di Lanzo
Nell’area naturalistica protetta de I Goret, all’altezza della frazione Grange di Nole, per un tratto di 300 m su entrambe le rive della Stura sono stati ritrovati resti di un’antica foresta di Glyptostrobus - specie arboree simili a sequoie della quale oggi esistono esemplari affini solo nella Cina meridionale -.
La Foresta Fossile rappresenta una delle più importanti testimonianze paleontologiche della nostra Regione.
Circa 3 milioni di anni fa’, in quel luogo, dove oggi scorre lo Stura, si trovava probabilmente una palude. La vegetazione che vi cresceva venne distrutta, forse da un incendio, e si sedimentò nella palude stessa. Si verificarono così le condizioni necessarie alla fossilizzazione.
I resti, che si sono conservati perfettamente - tanto da poter riconoscere i tronchi crollati, le radici, i rametti e i calchi delle foglie nell’argilla - appartengono a specie che oggi non fanno più parte della vegetazione spontanea dell’Europa.
La riscoperta della Foresta Fossile
La Stura di Lanzo è un corso d’acqua a regime torrentizio, caratterizzato da lunghi periodi di magra alternati a piene, anche improvvise e devastanti.
Negli anni le frequenti e violente piene – specialmente la catastrofica piena del 2000 - e i successivi interventi di escavazione nel letto del torrente, hanno operato un’ intensa erosione dei depositi torrentizi quaternari portato alla luce a centro alveo affioramenti di argille ricchi di resti vegetali fossili, risalenti al Pliocene (circa 5 – 2 milioni di anni fa) tra cui numerosi tronchi e ceppi di ragguardevole dimensione che si stima siano appartenuti ad alberi vissuti qualche millennio.
I ceppi di cospicue dimensioni sono risultati appartenenti ad un parente delle sequoie, il Glyptostrobus europaues, che colonizzava le aree del basso Canavese e della Mandria circa 3 milioni di anni fa e fossili di piccole pigne del Glyptostrobus e di foglie di una specie di ontano estinta.
Invero il bacino del Torrente Stura di Lanzo fu già oggetto di uno studio del Sacco di fine Ottocento, che non trascurò di fare un cenno ai fossili di vegetali che, di tanto in tanto affioravano nell’alveo del torrente vicino a Nole Canavese. Fossili che furono citati senza troppa enfasi da pochi sui colleghi del tempo, per poi cadere nell’oblio fino alla fine del Novecento.
Ma la vera peculiarità della foresta fossile dello Stura di Lanzo è che i resti sono immersi nell’acqua per molti mesi l’anno: è un vero mistero come questi monconi non siano marciti. Si ritiene che si siano conservati grazie ad un processo di mummificazione umida: dopo il loro seppellimento sotto i sedimenti limoso-argillosi, l’assenza di ossigeno libero ha impedito l’ossidazione chimica del legno e la sua decomposizione da parte di batteri, consentendone invece la quasi totale conservazione.
Il bosco dei roveri e la Fontana dei Ghiaieti
Presso la località Maddaleno, è possibile addentrarsi nel Bosco dei Roveri, in cui è tuttora conservata la Fontana dei Ghiaieti, risorgiva a lungo utilizzata dalle lavandaie del posto.
La Funtana ‘d Cup
Merita una tappa la risorgiva detta “Funtana ‘d Cup”, che ha la particolarità di avere portata e temperatura dell’acqua - circa 8 gradi - costanti nel corso dell’anno. Per questo motivo lo sbalzo termico che si crea in inverno tra la temperatura dell’acqua e quella dell’aria provocano la formazione di vapori che rendono l’ambiente molto suggestivo.
Antico Porto Fluviale
L’antico porto fluviale di Nole fu noto fin dal medioevo come punto di attraversamento del Torrente mediante dei barconi ancorati ad una fune.
Nei primi del 1900 venne realizzato un ponte su pilastri in cemento con un impalcato in putrelle di ferro e assi in legno che consentiva il passaggio dei primi mezzi agricoli.
Il ponte fu a più riprese danneggiato dalle piene della Stura, ma sempre ricostruito fino agli anni ‘70 con passerelle lignee provvisorie – dette pianche, di cui è ancora presente un grosso pilone di sostegno - utilizzate in passato della popolazione locale di Grange di Nole per raggiungere nole.
Il Sentiero delle fontane
All’interno della zona umida delle risorgive si snoda una percorso suggestivo, fra sorgenti, corsi d’acqua, felci, ontani e querce: è il Sentiero delle Fontane, che prende il nome dalle caratteristiche risorgive d’acqua, area protetta integrata nel SIC Stura di Lanzo (Rete Ecologica Europea Natura 2000).
Il percorso è situato su terreni privati e la sua fruizione è consentita solo tramite visita guidata da incaricati dell’Ente parco, in accordo con l’Azienda Agricola “Le Campagnette”.
Opuscolo sul sentiero delle fontane della Città metropolitana di Torino [PDF].
Il santuario di San Vito

Tra campi e boschi, appena fuori dall’Area protetta, a circa 600 metri a est del letto della Stura - all’incrocio delle strade percorse un tempo dai carri che andavano dal centro di Nole al torrente Stura e di là dal torrente stesso, fino alle Grange di Nole - troviamo il Santuario di San Vito troviamo la Cappella di S. Vito.
Il Santuario, progressivamente ampliato nel corso degli anni, è ricco di pregevoli affreschi seicenteschi e conserva più di 300 quadri votivi attestanti le grazie ricevute, uno splendido altare ligneo barocco del ‘700 dalla vivace cromia.
Storia
Non si conosce l’epoca precisa in cui fu edificata. Dai documenti risulta già esistente alla fine del ‘500, anche se ancora molto piccola e si ritiene che fosse un luogo di preghiera dedicato al santo già nel basso Medioevo, in concomitanza con lo sviluppo del ricetto nolese attorno alla chiesa parrocchiale.
Come molti altri santuari costruita intorno ad un pilone votivo, dedicato al santo, fu ampliata progressivamente nei secoli XVII e XVIII. Il pilone divenne ben presto punto di riferimento religioso per la zona per i presunti fatti miracolosi che attorno ad esso si verificarono. Tra le guarigioni ricevute, si narra di uno storpio guarito istantaneamente che vi lasciò le grucce.
I numerosi miracoli ottenuti furono documentati fin dall’origine con dipinti ex-voto su tavolette di legno; il primo di cui ci sia giunta notizia portava la data del 1593. Trovarono posto prima nella cappella e più tardi nella piccola sacrestia, costruita nel 1699.
Il santo divenne così caro ai Nolesi, ed in breve tempo venne edificata una cappella atta ad inglobare il pilone originario, e già tra il 1646 ed il 1649 la comunità fece ampliare la cappella. Il santuario raggiunge l’attuale struttura nel 1819.
L’interno della chiesa si presenta a navata unica. Vi trovano posto l’altare maggiore e due laterali. L’altare maggiore venne edificato nel 1500 quando si costruì la cappella.
Nel 1648 fu realizzato da Giò Lorenzo Lega il nuovo affresco, situato sopra quello originario. Al centro è raffigurato San Vito in abiti seicenteschi, a destra San Pietro con le chiavi in mano, a sinistra San Giacomo apostolo, vestito in abiti da pellegrino medievale.
In alto vi sono raffigurati Gesù Cristo con la croce e la Beata Vergine Maria nell’atto di incoronare il martire Vito. Nel 1649 fu aggiunto all’affresco Sant’Antonio Abate e 1652 quello di San Giovanni Evangelista, con la tunica verde ed il mantello rosso.
A metà Seicento l’altare della piccola cappella di San Vito era ormai completo.
Grande diffusione ebbe il culto a S. Vito nel 1700: testimonianza di ciò sono gli ampliamenti e gli abbellimenti, l’altare in legno policromo, la costruzione della casa del custode ( eremita ) e un documento del prevosto Corio che nel 1771 scrive “ad esso si ricorre da tutto il luogo in tutti i bisogni”.
Le tele di San Modesto e Santa Crescenzia, rispettivamente precettore e nutrice del martire, sono datate al 1725 e sono opera di autore ignoto.
L’uso e l’affluenza dei fedeli al santuario nei secoli passati fu infatti tale da richiedere la presenza di una persona che si occupasse dell’apertura e delle pulizie: si fecero allora costruire due stanze per ospitare un eremita (o romito) che viveva in questo luogo lontano dal centro abitato.
Il secolo XVIII vide l’ampliamento progressivo sia del santuario che della casa del romito e la costruzione del campanile.
Nel 1794 a seguito di una grazia ottenuta dal santo martire Vito, si ritira in eremitaggio presso il santuario il conte Amedeo Cavalleri di Rivarossa. Ferito – si ritenne mortalmente - in battaglia sulle Alpi Marittime, il 14 giugno 1794 fu salvato per l’intercessione di San Vito.
Giunto presso il santuario vi abitò fino alla morte, nel 1837, e apportando numerose migliorie e ampliamenti alla casa del custode, realizzando il giardino di pertinenza e il muro di cinta con l’edicola votiva che raffigura il ferimento del conte stesso e il voto fatto a san Vito.
Dal momento del suo ritiro a San Vito iniziò per il Conte una nuova vita: spese le sue giornate nella preghiera e nella solitudine del santuario, offrendo accoglienza ai pellegrini e una testimonianza cristiana vera.
La sacrestia, così come la ritroviamo oggi, è anch’essa opera ottocentesca, così come il porticato, costruito per offrire un ricovero ai pellegrini in caso di maltempo, dato che nei pressi non c’erano altri luoghi per ripararsi. Nell’anno 1819 la cappella fu completata così come la si vede oggi, nella sua struttura definitiva.
Da oltre 150 anni si è formata l’Abbadia di San Vito, un gruppo di persone che si prendono cura del santuario e che ne curano i festeggiamenti nella prima metà del mese di giugno e nelle altre occasioni di apertura della chiesa.
Dossier della città di Torino sul santuario di S. Vito [PDF].
Orari di apertura
Il santuario è visitabile - Il bene sarà visitabile salvo celebrazioni liturgiche - nell’ambito di Percorsi di arte, storia e fede nel Canavese, Ciriacese e Valli di Lanzo ogni domenica poeriggio dalla seconda domenica di aprile all’ultima domenica di settembre con orario: 10.00-12.00 e 14.00-18.00 e per la festa di San Vito (15 giugno): dal 6 al 15 giugno dalle 20.30 alle 22.30. Il 15 giugno e la domenica successiva: dalle 8.00 alle 23.00.
Eventuali variazioni di orario sono consultabili sul sito del santuario ed è possibile visitare il santuario anche su prenotazione. Infine è possibile fruire di una visita guidata on-line a questo link.
Nole e il vecchio Mulino
Addentriamoci a Nole e ammiriamo le sue borgate - antiche costruzioni rurali costituite da raggruppamenti di case contadine realizzate intorno al 1700 – e gli interessanti scorci di architettura a testimonianza delle tradizioni locali, come forni per il pane, pozzi, cappelle e piloni votivi.
Concediamoci una visita al vecchio mulino per cereali a tre macine, attivo fino agli anni ‘50, la cui pittoresca ruota sfruttava un salto di acqua di circa 5 metri derivante dal Rio Ronello.
I misteri di Venaria
Piazza dell’Annunziata e il Collare dell’Annunziata
Venaria risente del fascino misterioso degli ordini cavallereschi. La pianta della piazza del borgo, Piazza dell’Annunziata, ricalca la forma del Collare dell’Annunziata, simbolo dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, massima onorificenza di Casa Savoia e più antico Ordine Cavalleresco, che affonda le sue radici nelle tradizioni dell’antico Egitto.
Esistono venti collane grandi per i cavalieri insigniti del titolo, e queste devono essere restituite al Gran Maestro alla morte del cavaliere.
Il fantasma di Vittorio Amedeo II
L’Avta - Associazione Venariese Tutela Ambiente, che cura la gestione delle Visite Guidate e delle Manifestazioni che si tengono presso la Reggia di Venaria Reale - ha raccolto negli anni le segnalazioni di non meglio identificate presenze, come il pianto di una bambina.
Altri giurano di aver udito all’imbrunire, nei corridoi e nei giardini della Reggia e nel suo parco, un inequivocabile rumore di zoccoli accompagnato dal profumo di bergamotto.
Le piante di questo agrume, in grandi vasi di terracotta, ornavano anticamente i giardini della Reggia.
Si tratterebbe del fantasma di re Vittorio Amedeo II a cavallo del suo fidato destriero bianco, a guardia alla Reggia per allontanare vandali e visitatori che non rispettano la sua maestosità.
Nato nel 1666 dal secondo matrimonio di Carlo Emanuele II con Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours e incoronato nel 1713 primo Re Sabaudo, detto la Volpe Savoiarda.
Scacciando la madre - donna energica e di potere – dalla scena politica attraverso quello che può essere definito un vero e proprio colpo di stato, mise fine alle Madame Reali torinesi ristabilendo la linea politica maschile. Prese in mano le redini della nazione, prestò la sua alleanza in maniera alterna, sia alla Francia, sia all’Austria, al fine di espandere i domini dei Savoia.
Nel 1713 vinceva la Francia e si imponeva come interlocutore nella scena politica italiana diventando, con il Trattato di Utrecht, re di Sicilia, territorio scambiato successivamente con la Sardegna attraverso il Trattato di Londra.
Le storie sul fantasma di Vittorio Amedeo II sono solo chiacchere da bar?
Probabile. Eppure, come racconta alla Stampa Gianfranco Falzoni, presidente Avta «Una volta Vittorio Amedeo fu pure fotografato. Anni fa qui era pieno di militari che, dalla vicina caserma, si infilavano nella chiesa di sant’Uberto e imbrattavano i muri con scritte vergognose o dichiarazioni d’amore. Dissi al loro comandante di rimproverarli. Nessuno lordò più gli interni. Allora ringraziai l’ufficiale che, però, ammise di non aver mai detto nulla alla truppa e mi spiegò che non andavano più lì perché avevano visto apparire un uomo con un cavallo ed erano terrorizzati».
“Sì, io ho sentito il rumore delle carrozze e di cavalli al trotto”, racconta a sua volta Bruno Sacco, libero professionista classe 1970, molto conosciuto a Venaria perché parte del Gruppo storico militare Carlo Emanuele II duca di Savoia ed il Reggimento delle Guardie della Venaria Reale, dove interpreta proprio il ruolo del Duca di Savoia.
“Nella primavera del 2013 ero in compagnia di una mia amica e mentre stavamo tornando a casa, siamo passati per via XX Settembre. A metà strada, abbiamo iniziato a sentire il rumore di carrozze e di cavalli al trotto. Sulle prime pensavo di aver sentito male, poi, confrontandomi con la mia amica abbiamo capito che quei rumori erano reali. Siamo rimasti esterrefatti”.
Il fantasma, il figlio del “Duca di Savoia” è proprio il personaggio interpretato proprio da Sacco: “Se ci penso mi vengono i brividi – commenta – perché probabilmente voleva comunicarmi qualcosa. Purtroppo, però, non è mai più accaduto di sentire le carrozze, anche se, ad essere sinceri, in altre circostanze ho sentito delle voci all’interno di Sant’Uberto”.
Caccia al fantasma nella Reggia di Venaria
Di notte si sentono voci, suoni, sussurri, e vi sono zone dell’edificio dove il funzionamento di una macchina fotografica risulta alterato.
Una squadra di otto membri dello staff tecnico dell’Istituto Nazionale Ricerca e Studio di Fenomeni Paranormali ha deciso allora di setacciare la Reggia di notte alla ricerca di fantasmi, sistemando all’interno delle stanze telecamere a infrarossi e microfoni particolari per captare qualsiasi movimento o suono.
E i tecnici giurano che all’interno della Reggia di Venaria accadano cose strane.
Come riporta La Stampa, durante la caccia è stata registrata una variazione dei campi elettromagnetici che ha rilavato una vicino a uno scalone che parte dalla galleria con i 45 ritratti della dinastia sabauda.
Maria Giovanna di Trecesson
Più che di miseri e leggende qui parliamo di Gossip. Nel 1668 il nome di Maria Giovanna di Trecesson era sulla bocca di tutti: Marchesa di Cavour era l’amante del re Carlo Emanuele II.
La moglie del re, la duchessa Giovanna Maria di Savoia Nemours, finse di non accorgersi del tradimento, attendendo il momento più opportuno per mettere in campo una trappola e smascherare gli amanti. Così colse in flagrante il marito a letto con la Marchesa, presentandosi alla Reggia di sorpresa quando lui avrebbe dovuto recarsi a caccia con il cugino.
La stanza ottagonale di Venaria Reale
In un abitazione al primo piano di un palazzo settecentesco in fondo a Via Andrea Mensa, in prossimità dell’ ingresso della Reggia vi è un grande salone ottagonale. Ogni lato dell’ottagono ha una porta che conduceva in sette stanze.
Nell’appartamento, collegato alla Reggia attraverso una serie di passaggi segreti sotterranei, secondo alcuni una dependence segreta della Reggia, si davano convegno personaggi della corte dei Savoia.
I commensali pranzavano e festeggiavano nella stanza ottagonale e poi si ritiravano ognuno in una delle stanze da letto con la dama del momento- molto spesso una cortigiana- in gran segreto e al riparo da occhi indiscreti.
Esiste ancora la botola sul pavimento dell’ appartamento – oggi murata - che conduce al passaggio segreto comunicante con la Reggia.
Oggi questo luogo è un abitazione privata non visitabile.
Lucio della Venaria, tra storia e leggenda
Chiunque abbia un parente o un amico piemontese, specialmente se un po in avanti con gli anni, ha certamente sentito parlare di Lucio della Venaria. Ma chi era costui? Una maschera di carnevale? Un personaggio storico davvero esistito?
Ad un amico conta frottole un anziano piemontese potrebbe ancora rispondere: “Va a contéjla al Lucio dla Venerìa”: un invito a far bere la bugia o l’esagerazione a qualcun altro più credulone. Un modo per far comprendere all’interlocutore che non si è fessi.
Il Lucio di questa antica frase idiomatica piemontese era in realtà una maschera carnevalesca. Le prime documentazioni delle sue apparizioni sui palcoscenici dei teatrini dei burattini del Piemonte risalgono a metà Ottocento, ma è probabile che le sue origini, nel mondo del Teatro itinerante della Commedia dell’Arte, siano assai più antiche.
Lucio non ricopriva mai il ruolo di primo protagonista: era una sorta di spalla, ma tuttavia, in certi contesti, diventava il vero sostenitore del dialogo, il fulcro della scena. Interpretava il ruolo di un personaggio ingenuo, fortemente credulone, e talvolta anche un po’ corto di cervello, in alcuni casi il finto tonto.
C’è chi sostiene che nei boschi della tenuta della Mandria, dietro la Reggia della Venaria, esistesse una statua – ora sparita – raffigurante un misterioso personaggio, che vestiva un lungo pastrano, e che indossava un vistoso copricapo a larghe tese: la scultura appoggiava su un piedistallo in pietra, che riportava un cartiglio con inciso un nome: “Lucio della Venaria”.
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